

«Non dia retta a una bella bambola»: tanto fece Armida Barelli per intitolare il nascente ateneo al Sacro Cuore di Gesù, tanto padre Gemelli se ne infischiò di certi omuncoli disgustati dall’intraprendenza della sua giovane “cassiera senza cassa”.
Capiamoci, nel 1921, cento anni tondi fa, quando venne inaugurata l’Università Cattolica a Milano Armida Barelli era tutt’altro che una semplice o sventata fundraiser. Nata nel 1882, famiglia borghese, formata al prestigiosissimo collegio svizzero delle suore francescane di Menzigen, poliglotta come pochi maître à penser dell’epoca, Armida Barelli aveva tuttavia tentennato un po’ prima di seguire padre Gemelli nell’ambiziosa fondazione dell’ateneo.
Non si sentiva una intellettuale, ma il Sacro Cuore di Gesù scoperto in Svizzera e nella fede limpidissima di una compagna di studi: quello la muoveva da anni a destra e a manca. «Non più la fisima della scienza per la scienza o della cultura per la cultura, ma tutto, per la religione», le scriveva padre Gemelli nel 1919. Erano nove anni che lei lo seguiva con fiducia: era diventata terziaria francescana per partecipare all’assistenza della sua Opera impiegate, aveva tradotto articoli per la sua Rivista di filosofia neoscolastica, partecipato come segretaria al comitato per la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore.
E quando, vedendola in azione, il cardinal Ferrari le aveva affidato il compito di fondare la Gioventù femminile cattolica, compito benedetto e conferito ufficialmente da Benedetto XV che la nominò vicepresidente dell’unione donne cattoliche, l’instancabile “signorina Barelli” si era messa a girare l’Italia. A fondare opere, cercare donne in tutta la penisola a cui fare domande, raccontare l’avvenimento cristiano, aiutarle a studiare, mobilitarle al lavoro, spronarle a capire cosa stesse succedendo nel paese.
Il femminismo batteva la strada della rivendicazione, lei, Armida Barelli, quella della formazione umana e cristiana di una coscienza delle donne capace di fronteggiare il secolo delle masse. Scriveva, Barelli, per Vita e Pensiero (arriverà ad amministrarne l’omonima casa editrice). E un po’ il suo cuore inquieto trovò pace quando si “arrese” all’impresa della Cattolica per tradurre nel quotidiano il monito di Gemelli: «Studiate, ma per vivere santamente. Traducete la scienza in virtù e il dissidio fra scienza e fede sparirà». Eccola allora, accanto a monsignor Francesco Olgiati, Vico Necchi e al conte Ernesto Lombardo dire sì al progetto di padre Gemelli, partecipare in qualità di “cassiera senza cassa” alla fondazione del grande ateneo.
«Potevano convivere le idee di grandi uomini con quelle di una sola ma incredibile donna, capace di prendere i suoi spazi e meriti, come Armida Barelli all’interno di un progetto per tutti? Potevano e dovevano trovare forma. Che testimonianza pazzesca e attuale ci ha lasciato Armida Barelli». Quando le è stato chiesto di misurarsi con la grandezza della fondatrice dell’Università in cui lei stessa è cresciuta e ha maturato il suo impegno politico per un intervento nel convegno “Non dia retta a una bella bambola… Armida Barelli testimone di oggi”, Letizia Caccavale si è tuffata in una storia che pochissimi conoscono.
Presidente del Consiglio per le Pari Opportunità di Regione Lombardia, Letizia Caccavale ripercorre con Tempi le tappe dell’impegno di Barelli «in un contesto storico difficilissimo, quello delle guerre mondiali, dei totalitarismi, in un’Italia dove alle ragazze era spesso precluso l’accesso all’istruzione e le donne non avevano ancora diritto al voto». È qui che Armida Barelli inizia ad adoperarsi per l’emancipazione femminile delle ragazze cattoliche nella società.
«A un anno dalla nascita, la Gioventù femminile cattolica contava già 195 mila iscritte. Sono le prime che la donna mobilita per sostenere la nascita della Cattolica, e diventeranno milioni quelle che spingerà a un passo avanti nella vita sociale, culturale e politica. Senza lasciare indietro o rinunciare per questo a nulla: siate buone spose e buone madri, questo chiedeva da “sorella maggiore” – così la ricorderanno in tanti – alle donne che personalmente andava ad incontrare per spronarle a studiare, partecipare al dibattito culturale, fare la propria parte nella società e interessarsi della vita politica».
Scrive Barelli alla fine della guerra: «Sapete che è stato concesso il voto alle donne. È un esercizio di attività politica nuova per noi: dobbiamo prepararci, dobbiamo capire quali sono i princìpi sociali della Chiesa per esercitare il nostro dovere di cittadine. Siamo una forza in Italia noi donne. Su cento voti, quarantasette sono per gli uomini, cinquantatre per le donne. Se noi siamo concordi, possiamo mandare al potere coloro che difenderanno la religione, la Chiesa, la famiglia, la scuola, la patria».
Per orientare l’attività femminile, racconta Caccavale, «Barelli tesse dialoghi, incontri e rapporti con i vertici della Chiesa e non solo. Raccolto l’invito di Pio XII a fare dell’elettorato femminile un baluardo per arginare il comunismo inizia a girare l’Italia perché tutte le donne vadano alle urne, facendo anche sei discorsi al giorno, battendosi per raggiungere il cinquantuno per cento dei voti per il partito democristiano».
La stessa tenacia dimostrata per dare vita ai primi circoli della Gioventù femminile di Azione Cattolica, all’Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo e soprattutto all’Università Cattolica del Sacro Cuore: «Dovetti faticare due anni per raccogliere la misera somma di 50 mila lire che più tardi ci permise di dare la caparra per l’acquisto della sede. Quanti rifiuti, quante umiliazioni! Quante volte mi sentii dire: “Soldi sprecati… se non c’è una forte somma iniziale, milioni e milioni, inutile darvi piccole offerte».
Eppure Barelli riuscì nell’impresa: chiese il miracolo, promise di consacrare al Sacro Cuore l’università se si fossero trovati i soldi che la banca si rifiutava di concedere in prestito e questo spiegò al conte Lombardo che li invitava a pranzo a festeggiare il “funerale” di questa «utopia dell’Università Cattolica».
Vita e Pensiero racconta benissimo l’aneddoto, pubblicando un’anticipazione della biografia scritta da Maria Sticco, Armida Barelli. Una donna fra due secoli: quel giorno c’era da pagare entro le ore 15 la sede, pena perdita della sudatissima caparra, «e fino alle tre noi aspettiamo. Se il Signore vuole che facciamo noi l’Università Cattolica ci manderà il milione, e se Lui non vuole, perché dovremmo ostinarci? Abbiamo promesso al Sacro Cuore d’intitolare a Lui l’Università, se ci darà la grazia di farla sorgere. Perciò speriamo contro ogni speranza».
Il conte all’inizio diede loro dei matti. Ma poco dopo Armida ricevette un biglietto: «Da un’ora il tuo Sacro Cuore mi ha messo l’inferno in cuore! Voglio la mia pace, eccoti il milione!», con tanto di rispettivo assegno. Barelli impertinente non ringraziò il conte ma il Sacro Cuore di Gesù, diede vita a una rete di amici, non tutti intellettuali e nemmeno di media istruzione, fondò una “rivista degli amici” proprio per dar conto di ogni mattone posato, li chiamò da tutta Italia.
Di questi e altri scritti lasciati da Armida Barelli racconta Ernesto Preziosi, vicepostulatore della causa di beatificazione di Armida. Sì perché nel centenario della fondazione della sua amata università e in un’epoca ostaggio di femminismi di segno uguale e contrario a quelli fronteggiati da questa donna straordinaria fino a metà Novecento (fino alla morte, in seguito a una grave malattia nel 1952), per la “cassiera senza cassa” si è aperta la strada della beatificazione.
«Nessun danno cerebrale»: i medici sbigottiti avevano visto Alice Maggini rifiorire nonostante il tremendo incidente, le gravissime condizioni con cui era stata ricoverata. Era il 5 maggio 1989, Alice, 65 anni, stava pedalando a Prato quando un camion la investì in pieno. La famiglia allora si era rivolta alla venerabile serva di Dio Armida Barelli e la signora era guarita, nessun danno neurologico riportato, cosa «scientificamente inspiegabile», e visse in pace e senza alcuna conseguenza dell’incidente fino al 2012.
La “bella bambola” aveva salvato Alice, dopo aver girato l’Italia, il mondo, essersi spinta in missione fino in Cina, avere assunto, nel ’46, il ruolo di vicepresidente dell’intera Azione Cattolica. E insieme al miracolo ci aveva lasciato una terza via, «aveva preservato le donne dagli aut aut dei totalitarismi, dalle rivendicazioni del femminismo. Lo aveva fatto uscendo dagli schemi del tempo e mettendo a frutto quelle che oggi chiamerebbero “soft skills” di cui era dotata, a partire dalla sua straordinaria capacità di interpretare la realtà. Aveva capacità di calcolo, intraprendenza, doti organizzative. Si racconta che nel suo viaggio a Palermo dove le era stato detto di non perdere tempo con ragazze che non uscivano nemmeno di casa seppe suscitare la loro curiosità e il loro interesse. E che alle simpatizzanti del fascismo raccomandava di non perdere di vista la stella polare, il Vangelo, guida superiore a qualsiasi ideologia. Si mise in gioco senza paura, lei, ragazza borghese, in viaggio sui treni a dormire in alberghi e bettole di città sconosciute, per proporre preghiera, un lavoro, una compagnia nello studio e nella vita. Un’eredità immensa per tutti noi» conclude Letizia Caccavale, che ha dato disponibilità ad ospitare in Regione la bella mostra dedicata ad Armida Barelli in programma in Cattolica a settembre.
«In un anno in cui la pandemia da Covid ha portato disagio, paura, incertezza, distanza siamo chiamati a lasciarci provocare da testimonianze come questa che riaccendono il gusto per la vita. In Università, perché sia sempre un luogo che sappia intercettare e risvegliare il desiderio dell’uomo, tra le nostra mura domestiche, al lavoro, tra i nostri amici».
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