
Aria fresca nell’aria di vetro
Che si dice in giro dei giovani che odiano anche l’aria che respirano (e non solo nelle periferie francesi, nelle madrasse islamiste o nelle scuole okkupate)? Che si dice della dissimulazione delle persone adulte che la sanno lunga e non sanno dire nient’altro che parole a vanvera, sondaggi, analisi, inchieste con tesi già preconfezionate? In realtà non siamo stai mai così schiavi dei pregiudizi come in questo tempo che racconta di non avere alcun pregiudizio. Per parafrasare le parole di don Giussani, se ci fosse una educazione del popolo sarebbe normale ricominciare, di nuovo, daccapo, tutto. Ricominciare. Di nuovo. Daccapo. Tutto. Non è forse questa la legge della vita umana (pensate, “rialzarla”, “buttarla giù dal letto”, la vita, ogni mattina!)? C’è un “Io” (non appena un sasso, un albero, un cane), e l’infinito.
Cosa è accaduto, allora, come dice l’Appello, che non sembra essere mai accaduto prima? è accaduto che, un bel mattino abbiamo voluto credere alla bugia del niente dietro di noi e, come in una poesia di Montale, abbiamo voluto estendere questo pregiudizio oltre e contro ogni possibilità, evidenza, ragione, così che «Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco». Di che cosa parliamo con le nostre cronache, le nostre lezioni, le nostre discussioni furibonde, quando parliamo ai giovani (e non solo)? Mah. Di sicuro c’era una volta l’educazione, racconta Giussani nel suo Rischio educativo (Rizzoli), traendo la sua poesia da una vita tesa a ricominciare, tra i giovani (e non solo).
Di sicuro, per dirla tutta con don Giussani, «La nostra insistenza è sull’educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: “è vero”, “Non è vero”, “Dubito”. E così, con l’aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l’uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: “Sì” oppure: “No”. Così facendo, prende la sua fisionomia d’uomo. Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l’ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l’ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che uno fa un problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: “è vero?”, è diventato uguale a dubitarne. L’identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù. Il dubbio è il termine di un’indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l’invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura. Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica. il giovane è foglia frale lungi dal proprio ramo (“Dove vai tu?”, diceva Leopardi), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un’opinione pubblica generale creata dal potere reale. Noi vogliamo – e questo è il nostro scopo – liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente dagli altri».
Anche noi lo vogliamo, e vogliamo che questo sia lo scopo anche di un giornale: collaborare alla liberazione dei giovani.
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