
Andavamo in via Meravigli
Ci veniva a trovare quando Tempi era l’impiego quotidiano (precario) del giovane Maurizio Zottarelli, il dopolavoro (notturno) di Paolo Fumagalli, la tavolozza imbandita di colori e bella gioventù del maestro di Barbiana, Marco Cirnigliaro. Ci veniva a istruire sull’America di Flannery O’ Connor e quella del suo amico del Michigan, Russel Kirk, quando gli stipendi da noi erano simbolici e la sua una pensione da operaio. Ci veniva a spiegare e a consigliare autori che la povera intellighentsia di questa Italia non ha mai letto,ma che ha sempre generosamente censurato. Forse perché non è mai stata né giovane, né vecchia, ma ha solo sognato queste due età, addormentandosi sulla poltrona del conformismo. Ha scritto per noi, e per noi resta uno della squadra, il buon Mario Marcolla, uomo semplice e pozzo di sapere, un vero intellettuale, un amico, che se n’è andato, all’improvviso, sabato 25 ottobre. Due, tra i suoi giovani amici, qui lo ricordano.
Mario Marcolla era un uomo che aveva ben chiaro quale fosse il dono grande della vita: l’amicizia. Adesso che è morto a 74 anni, ce ne rendiamo conto davvero, quando ci ritroviamo circondati da una fitta rete di amici portati a incontrarsi grazie alla sua generosa opera di “tessitore culturale”. Marcolla lavorò per una vita in una fabbrica tessile, da garzone a operaio a caporeparto. Ma una volta libero dal turno di notte, si metteva a studiare: filosofia, storia, politica, teologia. Nel suo destino difatti alcune trame si leggono a prima vista, come quella che lo volle, lui autodidatta, arrivare a scrivere su testate prestigiose: dal 1966 su Studi cattolici, dal 1968 sulla terza pagina dell’Osservatore Romano, poi collaboratore della famosa Rusconi di Cattabiani; in seguito firmò su Il Sabato, su Avvenire, sulle prime annate di Tempi. Nel ’99 e nel 2001 venne calorosamente accolto al Meeting come ospite.
Nell’epoca nemica del popolo
Avremmo dovuto ancora incontrarci a Monza per parlare di Flannery O’Connor, insieme al gruppo del “Cervo Bianco”, gli amici che Marcolla, a cinquant’anni dal primo sodalizio torinese, aveva radunato intorno a sé in Brianza «con il fine di contribuire alla continuazione nel tempo di una tradizione morale cristiana e popolare, e con lo scopo di favorire la trasmissione del sapere tra generazioni diverse in un’epoca nemica di tutto ciò». Ci ritrovavamo in una decina di persone, alla domenica pomeriggio, da un anno, a parlare dell’amore in Platone e del romanticismo tristo della nostra epoca, del katechòn in San Paolo e in Carl Schmitt, di storia del Novecento e di tanto altro. Era la precisazione e l’estensione delle discussioni e di innumerevoli consigli di letture avuti da Marcolla in questi quindici anni di incontri: come quando ci suggerì, nel 1989, di leggere l’opera di quella sconosciuta scrittrice americana morta a 39 anni, la O’Connor, «perché ha uno stile così vicino a Cl per l’accento dato all’Incarnazione».
Mario Marcolla lascia a noi, di una o due generazioni successive alla sua, l’impronta netta e la testimonianza di che cosa siano la durezza e la fecondità del lavoro, di come si debba cercare la radice della cultura che non è mai intellettualismo, di quanto sia in bilico oggi la fede, ma anche di come possa essere radicata ancora nella modernità in crisi e di come si possa vivere, quasi classicamente, l’amicizia. L’abbiamo conosciuto seguendo le tracce di Rodolfo Quadrelli, che già ci era stato maestro e di cui Marcolla meglio di ogni altro aveva raccolto l’amicizia prima e l’eredità poi: Quadrelli, poeta, critico e professore dalla erudizione sterminata, e Marcolla, operaio arrivato a diciott’anni senza saper che «padre Dante aveva scritto un’opera che aveva per titolo la Divina Commedia» e che poi si era letto tutto il Capitale per finire a coglierne la totale assurdità e scoprire una via diversa. Figura autentica di lavoratore che trova nella fede un approdo a una ricerca che non ha fine e nello studio la coscienza di ciò che c’è, Marcolla ricordava spesso di come lo riavvicinassero al cattolicesimo dapprima la scelta intellettuale compiuta a Torino insieme ad Augusto Del Noce e poi, più profondamente, la testimonianza dei rosari che le operaie tessili recitavano in fabbrica mentre svolgevano il proprio lavoro. Uomo di cultura rigorosissima e non accademica, ha contribuito a far conoscere e a radicare le opere di autori quali Russell Kirk, Augustin Cochin, Hans Sedlmayr, Eric Voegelin, Eugenio Corti. A lui si devono inoltre innumerevoli contributi, incontri, articoli e convegni, che riproposero in tutta la loro attualità le opere di T. S. Eliot, della O’Connor, di Pound e, soprattutto, del suo maestro Augusto Del Noce. Prorio quest’ultimo nel 1960 lo invitò nel proprio studio per mostrargli centinaia di pagine sparse sul pavimento dello studio e ordinate in plichi tra cui si potesse camminare: così il filosofo torinese stava componendo il suo capolavoro, Il problema dell’ateismo.
Quando arrestarono M. Chiesa
Forte del costante dialogo con tale tradizione e con molti libri di storia ch’egli leggeva e rileggeva in continuazione, Marcolla sapeva cogliere i segni dei nostri tempi meglio di tanti altri: possedeva cioè il “senso del presente”. Ricordiamo quando nel 1992, la sera stessa in cui arrestarono Mario Chiesa, a noi che pensavamo a uno screzio tra Procura e potere politico, Marcolla obiettò dicendoci che stava per iniziare un tempo terribile e sanguinario, che la rivoluzione era già scoppiata e che mirava ad abbattere direttamente il popolo e la Dc e che era necessario, in quel frangente, “difendere i ladri” per cercare di salvare il nostro Paese. Testimone attonito del mutamento antropologico causato dal “nuovo fascismo” imperialista in Italia, discuteva a fondo sia lo scempio comunista e post-comunista sia la politica attuale degli Stati Uniti. Sapeva parlare di sé coinvolgendo la storia intera: così che chi voglia capire a fondo il dopoguerra italiano deve leggere il suo splendido libro dal significativo titolo Una vita in fabbrica (1998), in cui ha descritto il proprio itinerario spirituale sino agli anni ’80, la storia italiana e il suo permanente tentativo di rivivere oggi le grandi possibilità della tradizione.
A lui abbiamo sempre ripetuto che doveva concludere tale spaccato con la descrizione, insieme autobiografica e storica, di questi ultimi vent’anni. Negli ultimi mesi, stava lavorando a una raccolta dei suoi scritti migliori, che voleva intitolare in modo emblematico Le due torri. L’opera uscirà postuma, cioè priva della dolcezza del sorriso di Marcolla, della sua voce roca e affaticata, delle sue memorie lontane e affascinanti. È questo il libro che, insieme al maestro amico, oggi ci manca dolorosamente.
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