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Anche se non ti interessi del terrorismo, lui si interesserà di te

L’Italia pensa di continuare a star fuori dalla guerra al jihadismo? Grazie al lavoro che svolgiamo da anni in Medio Oriente, abbiamo titolo per recitare una parte positiva

Alfredo Mantovano
05/07/2016 - 3:00
Esteri
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I colori della bandiera italiana proiettati sul Campidoglio, in segno di vicinanza verso i connazionali rimasti uccisi nel terribile attacco di Dacca a Roma, 2 luglio 2016.

Anticipiamo un articolo tratto dal numero di Tempi in edicola da giovedì 7 luglio (vai alla pagina degli abbonamenti) – Parafrasando quello che Gramsci sosteneva a proposito della politica, è giusto dire che anche se tu non ti interessi del terrorismo, il terrorismo si interessa di te. Puoi fruire dell’ottimo lavoro che sul territorio nazionale svolgono i servizi e le forze di polizia, avendo a disposizione leggi all’avanguardia. Se però tanti tuoi connazionali lavorano all’estero in zone diventate difficili e non sei in grado di tutelarli in modo adeguato; se ritieni che non partecipare a missioni militari in scenari di crisi oltre peace keeping sia apprezzato dai tagliagole ultrafondamentalisti, al punto da indurli a risparmiarti; se sei convinto che il profilo basso paghi, non sei legittimato a meravigliarti quando esplode la tragedia. Né ti è lecito affermare che è stato uno sbaglio, che ce l’avevano in generale con gli occidentali e non con gli italiani, e che è meglio continuare a sperare che non tocchi più a noi. Pensare in questo modo espone ancora di più: nella logica del terrorista è fantastico colpire nella certezza che non ci sarà reazione. Nell’imminenza della strage il presidente del Consiglio e il capo dello Stato hanno adoperato toni duri, coerenti con la gravità di quanto accaduto. Devono seguire i fatti. Senza illusioni.

Si è troppo enfatizzata la circostanza – vera – che lo Stato islamico ha perduto negli ultimi mesi aree importanti del territorio che controllava. Forse taluno ha creduto che a ciò seguisse una riduzione degli attentati. La realtà ha dimostrato il contrario: più città e villaggi vengono sottratti all’Is, più l’Is cura il proprio franchising di morte per rendere chiaro di essere vivo e vitale. Questo non vuol dire che non deve proseguire lo sforzo per sradicarlo dai luoghi nei quali è ancora insediato: magari procedendo con un raccordo operativo serio. Smettendo di combattere ciascuno la propria guerra nazionale contro i presunti alleati e iniziando a combattere la guerra di tutti contro l’Is. L’Italia pensa di continuare a starne fuori? È così convinta che una sua partecipazione non legittimerebbe un proprio ruolo verso una maggiore efficacia delle operazioni? Grazie al lavoro che svolgono da anni in Libano, in Iraq e nell’intera area mediorientale, militari e diplomatici italiani avrebbero titolo per recitare una parte originale e positiva: soprattutto in un momento di incertezza determinato dalle imminenti elezioni negli Stati Uniti. Non è il caso di accelerare gli sforzi contro l’Is prima che un successo di Trump accentui il tratto isolazionista seguito finora (con non poche incoerenze) da Obama? Ovvero prima che un successo di Hillary Clinton accentui lo squilibrio della singolare e non dichiarata alleanza fra nemici, per esempio riprendendo a considerare Assad il pericolo numero 1?

Loro dicono, noi non ascoltiamo?
Con una preoccupazione cresciuta dopo Dacca. Tutti sanno che l’Is annuncia le proprie iniziative, indica obiettivi che poi persegue. Lo fa non in modo criptico: nel numero di aprile di Dabiq, la rivista ufficiale dell’Is, dopo che da novembre ogni mese aveva dedicato una sezione ai successi militari in Bangladesh, vi erano segnali inequivoci su quanto sarebbe accaduto nella capitale. Era uscita un’intervista a un soggetto presentato come il nuovo emiro locale. Sempre Dabiq nell’ultimo numero esprime elogi verso un altro combattente bengalese, conosciuto come Abu Jundal al-Banghali. Era accaduto qualcosa di simile a ottobre con un’intervista a colui che dopo qualche giorno avrebbe organizzato le stragi di Parigi. La dicono e non ce ne curiamo? Proprio perché la dicono, vanno seguiti con attenzione rafforzata e mirata ai luoghi, soprattutto in Asia – fra Indonesia, Singapore, Malesia e Filippine – nei quali ci sono italiani che lavorano.
Il tutto senza trascurare quello che non è un dettaglio. Abbiamo un sistema di sicurezza fra i migliori al mondo: non reggerà per molto ridotto all’osso, come è da più leggi di stabilità. I sacrifici, le competenze e il senso del dovere non arrivano a dotare di quei mezzi oggi indispensabili, e non sempre e non in modo diffuso disponibili. La sicurezza non è un lusso. Cade sotto la voce della stretta sopravvivenza.

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Tags: Bangladeshdaccahillary clintonIsisStato Islamico
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