«A forza di sentir dire che il diritto si riduce all’economia, c’è il caso che l’inesperto e il dilettante (che è anche peggiore) di filosofia, si metta a proclamare che il diritto consiste unicamente nel far tutti il comodo proprio»: così ebbe a scrivere il noto maestro del diritto italiano Piero Calamandrei.
Nelle parole di Calamandrei si vogliono esplicitare almeno tre circostanze: i dilettanti del pensiero pensano e diffondono idee erronee; pensano erroneamente intorno al diritto; errano, altresì, allorquando riducono il diritto all’economia o ritengono che esso consista nell’idea di poter assecondare il capriccio di ciascuno.
Analogicamente si può ritenere che così accade oggi allorquando altri dilettanti del pensiero, quelli contemporanei, riducono il diritto all’amore o tentano di giuridificare l’amore reputandolo elemento fondante del diritto e degli istituti giuridici.
In questa sede occorre, quindi, comprendere perché l’amore non è un bene giuridico.
Senza dubbio il diritto dev’essere giusto e la giustizia non è altro che una forma d’amore, dato che per raggiungerla occorre dare a ciascuno il suo, cioè non ledere l’altrui sfera giuridica, ovvero “amare” il prossimo tramite azioni giuste, tuttavia, è anche pur vero non solo che la giustizia è una forma d’amore, non coincidente e non identificabile esattamente con quest’ultimo, ma che diritto e amore, nonostante tutti i tentativi che si possono esperire, sono destinati a rimanere sempre e comunque irrimediabilmente separati.
Si può senza dubbio amare il diritto, come ci si augura allorquando un magistrato emetta una sentenza, sperando appunto che lo faccia per amore della giustizia e non per la libido del potere; si può anche reclamare il diritto di amare, cioè la libertà di amare senza che lo Stato, l’ordinamento o altri intervengano o si frammettano nel proprio sentimento; ma non si può, tuttavia, tentare di mettere insieme amore e diritto.
Amore e diritto, infatti, non possono essere congiunti, come si vorrebbe da parte di tutti coloro che giuridificano (come, per esempio, la Corte Suprema degli Stati Uniti) o vorrebbero giuridificare l’amore, non più di quanto in fisica possono essere congiunti gli stessi poli magnetici che, come è noto, sebbene medesimi, anzi, proprio per questo, si respingono.
L’amore e il diritto, infatti, hanno qualcosa in comune che li rende simili e perciò reciprocamente respingenti come i poli magnetici, e molte differenze che li rendono indubbiamente inconciliabili.
Sono simili poiché entrambi espressione della razionalità e della relazionalità umana, sebbene secondo declinazioni differenti; l’amore, infatti, secondo la dimensione intima più personale, mentre il diritto secondo quella universale.
Sono diversi, invece, per le differenze strutturali che li contraddistinguono in modo netto ed inequivocabile.
L’amore, infatti, è libero, privato, particolare, esclusivista e sostanziale.
È libero perché non può essere né ordinato, né vietato; è privato perché non ha una rilevanza per la collettività; è particolare perché è rivolto ad una specifica persona, cioè la persona amata; è esclusivista perché diretto verso qualcuno ad esclusione di tutti gli altri, come appunto accade tra moglie e marito; è sostanziale perché non vi sono procedure o formalità per amare qualcuno: lo si può fare parlando o agendo, come in silenzio o restando fermi.
Il diritto, invece, è coercibile, pubblico, generale, inclusivista e formale.
È coercibile perché utilizza il comando, la forza e la sanzione per costringere qualcuno al comportamento da osservare; è pubblico perché riguarda l’intera collettività in quanto espressione del bene comune; è generale poiché non riguarda casi specifici, ma detta una disciplina per tutti i casi in genere venendo poi applicato al caso singolo; è inclusivista proprio perché universale, in quanto riguarda tutti gli esseri umani; è formale poiché è condensato in principi meta-normativi, e, per la gran parte perfino, in norme positive che sanciscono anche modalità e procedure indispensabili per la sua esplicitazione.
Che ne sarebbe di entrambi se venissero mescolati? Che ne sarebbe dell’amore? Che ne sarebbe del diritto?
Sarebbe autentico amore quello che fosse ordinato o vietato dalla legge? Che amore sarebbe quello che fosse provato per timore della sanzione? Che amore sarebbe quello che non fosse provato nei confronti della persona amata e soltanto nei confronti di questa, ma nei confronti di una generalità di soggetti non identificata o non identificabile?
Come direbbe Pascal non sarebbe impotente quel diritto che non fosse coercibile? Che diritto sarebbe quello che fosse non dipendente dal bene comune? Che diritto sarebbe quello che rimanesse intrappolato nella coscienza di ciascuno, come il sentimento dell’amore, e che dunque non fosse tangibile nella concretezza del principio giuridico o della legge?
Si comprende bene, allora, quanto è decisamente inopportuna ed erronea l’operazione che tenta di conciliare ciò che conciliabile non è: amore e diritto.
Tentare di giuridificare l’amore significa violare all’un tempo, dunque, sia la natura dell’amore, sia la natura del diritto, cioè dimostrarsi degli inesperti, o peggio, dei dilettanti, per utilizzare la felice formula di Calamandrei, sia nel campo amoroso, sia soprattutto nel campo giuridico.
Appare fin troppo chiaro, insomma, che tanto per le loro similitudini, quanto soprattutto per le loro differenze amore e diritto non possono essere reciprocamente “incastrati”.
Non si possono e non si devono mescolare amore e diritto, dunque, non solo per il diritto dell’amore di essere autentico, autenticità che sarebbe smarrita qualora venisse giuridificato, ma soprattutto per amore del diritto, cioè per garantire che il diritto sia ciò che è e non già il suo grottesco feticcio sentimentalista.
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