Malattia. Emil Cioran la definì «l’immensa umiliazione legata al fatto di languire nei paraggi della morte». L’arte avalla questa impietosa visione, generalmente rifuggendo dal farne narrazione. Così la malattia umana si configura come tema artistico iperpresente in absentia. Per dirla attraccandosi a una citazione berlusconiana, non v’è dubbio che, oggi come oggi, gli ospedali siano più pieni dei ristoranti. Il romanzo autobiografico Alzheimer mon amour (192 pagine, 10 euro), pubblicato in Francia nel 2011 e ora tradotto in italiano dalle Edizioni Clichy, è un’eccezione che rivela, in una sola volta, tutto il taciuto. Una nuda disamina che pone sul piatto una serie di questioni eterne: perché esiste la malattia; perché in alcuni casi dev’essere incurabile? E poi questioni nuovissime, sbocciate in questi tempi di iperefficientismo della vita, nei quali molti credono davvero che la malattia sia umiliazione dell’essere umano e nient’altro. Questioni come: fa bene o fa male chi prova contro ogni logica e razionalità a debellare una malattia inguaribile con metodi disperati? Quanto sono realmente in grado i caregiver, i familiari che assistono i malati, di farsi carico dell’intera responsabilità della vita di un altro? Quanta energia ha un caregiver? Quanta ne prosciuga anche a lui la malattia, propagandosi oltre il malato? Fin quando il caregiver si può sostituire a una società così ingenerosa di strutture assistenziali complementari agli ospedali, adatte alle tante nuove malattie che, come un blob democraticamente trasversale, si distribuiscono come pioggia ormai inarrestabile?
Daniel è il trentennale marito di Cécile. Ogni mattina le prepara il tè, ma un giorno non ricorda più qual è la varietà che lei preferisce. Poco dopo, rimane coinvolto in un incidente d’auto. Gli esami di routine non lamentano nulla. Ma quando diventa sempre più assente e distratto, si impone una Tac. Che decreta una grave forma di Alzheimer, la demenza da corpi di Lewy. Cécile è una psicologa (e qui la storia diventa ancor più esemplare, perché dimostra che anche un professionista della salute mentale altrui, posto nei panni di caregiver, può perdere la bussola, figurarsi chi non lo è). Si penserebbe che, nel male, questa sia una fortuna. Daniel, progressivamente eroso dall’Alzheimer nella cognitività e nel comportamento, è un malato neurologico e perciò, in un certo senso, psichico. Sua moglie saprà accompagnarlo nel momento difficile della sua esistenza con razionalità e forza. Invece no. Appurato che non esistono cure per guarire l’Alzheimer, Cécile ribalta ogni raziocinio e decide di usare tutta la sua sapienza psicoterapeutica per batterlo. È sola, disperata, vive la malattia di Daniel come un’umiliazione e nient’altro: non distingue più tra le speranze sperabili e quelle insperabili. L’Alzheimer sta distruggendo la memoria di Daniel? Lei la ricostruirà riportandolo nei luoghi e nei tempi dei neuroni illesi. Più che una cura, ovviamente fallimentare, si potrebbe dire: una tortura. Chiunque lo capirebbe, ma Cécile è, da una parte comprensibilmente, dall’altra no, caduta nel piccolo delirio d’onnipotenza di non arrendersi al principio della realtà. È una psicologa che inciampa nella negazione. Da una parte, Cécile si sottopone con ammirevole dedizione a un percorso che la trasforma nella metà di una coppia fusionale. Intesa come necessaria nuova taratura di una relazione che, quasi tragicamente, perché uno sopravviva debba potersi aggrappare completamente all’altro, intatto nella sua salute, e perciò predestinato, in nome dell’amore nella buona e nella cattiva sorte, al dovere di non abbandonare il congiunto malato al suo destino, quando la ruota gira al contrario e non si può rettificare. In questo, Cécile incarna lo stereotipo assoluto del caregiver. Rappresenta ogni moglie, marito, genitore, figlio, fratello e sorella che abbiano riscritto la trama, i ritmi e il senso della propria vita intorno a quella del familiare malato al quale si dedicano. Ma, dall’altra parte, Cécile continua a coltivare in sé l’ossessione che l’Alzheimer possa esser annientato.
La tendinite del caregiver
La malattia del marito, come accade in ogni male che sia fronteggiato esclusivamente da caregiver, si insinua nell’esistenza del sodale e mina, destruttura, sfalda anche quella: Cécile è distrutta come moglie e come brillante psicologa. Si parla spesso, cinicamente, di “egoismo del malato”, ma mai di quello in cui può involontariamente incappare il caregiver che drammatizza oltremodo la condizione patologica del suo assistito, invece di lavorare a sdrammatizzarla e a offrirgli presenza, sostegno, conforto, amore e null’altro. In metropolitana, diretti verso il centro diurno nel quale prova a portarlo, poco convinta che una struttura di qualunque tipo sia migliore di ciò che lei può dare al marito, Daniel aspetta, seduto, che lei gli tenda la mano per alzarsi, con gli occhi «ormai spenti, neutri, come svuotati di qualsiasi segno di coscienza». Per scendere le si aggrappa al braccio fino a farle male. Cécile scopre la sensazione comune a molti caregiver, quell’impressione di non vivere più per sé, ma unicamente per il familiare malato. «I medici hanno individuato tendiniti di ogni tipo, quella dello sportivo, quella del pittore, e addirittura quella dello scrittore. Ma c’è qualcuno che ha parlato della tendinite del caregiver?».
Lasciato Daniel al centro, Cécile sperimenta gli stessi sentimenti di forzata separazione che angosciano una madre il primo giorno di asilo del figlio. Non sa come contrastare quella sensazione di vuoto che qualsiasi caregiver totalmente assorbito dall’assistenza percepisce quando il malato è affidato ad altri, anche soltanto per qualche ora. Cécile ci svela un’altra verità dell’invisibile mondo dei caregiver: esperire il ruolo di persona dalla quale il malato dipende in toto può creare a sua volta una dipendenza, quella dal ruolo di assistente. Chi sostiene il sostenitore del malato? Chi veglia sulla sua lucidità? Nessuno. Cécile per ben due volte pensa di uccidere il marito ed evitargli quella che anche a lei appare ormai solo “l’umiliazione” dell’esser malati. È stata risucchiata nel gorgo che le ha portato via ogni straccio di normale amore tra uomo e donna, per lasciarle solo il testimone della custode di un marito diventato un bambino non in grado di stare al mondo da sé, al quale nemmeno il centro diurno piace e, in cerca di un luogo in cui trovare un po’ di pace, lo porta in una casa di riposo. Che poi le sembra inadatta, e certamente lo è. Così decide di riprenderlo e fuggire via, in un ultimo, estremo, errato azzardo. Via dalla Francia, altrove, illudendosi di scappare dalla malattia. Via, lontano, in Africa, dove non esiste un passato e dove la vita sia qualcosa da ricostruire ex novo. È l’ennesimo auto ed eterolesionista tentativo di negare la verità che l’Alzheimer sia imbattibile.
Passano alcuni mesi in Madagascar. Cécile non è più soltanto l’unico punto di riferimento del marito: lo è in un paese straniero, ostile, sull’orlo della guerra civile, e dal quale, infatti, ritornano sconfitti. Poco dopo Daniel ha una crisi, quasi la strangola mentre tenta di attaccarsi a lei per non cadere a terra. Cécile chiama un’ambulanza. Il medico le apre gli occhi: «La smetta di prendersi in giro. Se davvero vuole proteggerlo, gli trovi una sistemazione adeguata». Le spiega che esistono case d’accoglienza specializzate per malati di Alzheimer. Che forniscono sollievo, questo elementare e vitale aspetto mai considerato da Cécile, accecata, per eccesso d’amore, dalla chimera di sconfiggere l’invincibile Alzheimer.
La follia dell’accanirsi
Dopo quattro anni di inutili tentativi, Cécile finalmente comprende che quella malattia non è una morte, né un’umiliazione, ma un momento della vita, e consegna Daniel nelle mani di chi saprà prendersi cura di lui adeguatamente, senza esporlo ad alcun pericolo. Capisce, solo dopo averla attraversata, la follia del suo personale accanirsi. Cristallizza il suo amore di moglie con parole commoventi: «Ha esaltato le mie passioni, cancellato le mie asperità, ravvivato i miei colori». Accetta di fare lo stesso per Daniel, di amarlo come si deve, ora che i suoi, di colori, sono diversi. Ma vivi. Sono milioni le malattie che ogni giorno affliggono le vite di tanti. Ma non bisognerebbe mai dimenticare quanta fatica compie ogni giorno un caregiver, e quanto abbia bisogno anch’egli di sostegno. E non bisogna dimenticare quanto ricorda dei malati Jean-François Mattei, presidente della Croce Rossa Francese e membro dell’Académie Nationale de Médecine, nella prefazione a questo prezioso libro: «Possiedono la stessa dignità di ognuno di noi. A noi sta accompagnarli, proteggerli, rendere la loro vita quanto più bella possibile».