
Alitalia, perché l’asta non era un’asta
All’ultimo Cda Alitalia, qualche giorno fa, la compagnia è giunta a sette mesi esatti di distanza dal lancio della gara-non gara, il 29 dicembre 2006, con cui il governo Prodi ha tentato di privatizzarla aprendo le prospettive per un’Opa totalitaria. Dal fallimento – scontato – della procedura non trasparente adottata dal Tesoro nei mesi alle nostre spalle, il bilancio che si può trarre è solo negativo. Padoa-Schioppa continua a dichiarare di volere una gara competitiva e di non considerare la trattativa privata come una via obbligata. Nel frattempo il manager Giancarlo Schisano è chiamato a coordinare un piano industriale che per l’ennesima volta mira a ridurre le perdite in assenza di una delle tante scelte chiare che l’azionista pubblico ha avuto il torto di rinviare per anni, e che sono alla base delle perdite a bocca di barile di Alitalia, mentre tutte le compagnie o quasi guadagnano e anche quest’anno il traffico aereo si avvia a crescere di quasi il 7 per cento. Il non aver saputo e voluto seguire una procedura trasparente è la più netta prova della violazione da parte del governo dello stesso giro di vite che ha voluto imprimere col nuovo codice degli appalti varato dal ministro Di Pietro: l’esecutivo non applica allo Stato azionista le stesse condizioni di cristallinità e competizione che prescrive ai privati che vogliano candidarsi a gestire beni o servizi pubblici. In caso di trattativa privata, l’espediente per aggirare le regole europee sarebbe quello di farla gestire direttamente ad Alitalia. Ma lo spettro di appelli alla Commissione europea non sarebbe fugato per nulla. In caso di ulteriore gara, bisognerebbe invece augurarsi che le regole del Tesoro fossero meno discrezionali e arbitrarie di quelle escogitate per la gara-non gara di questi sette mesi.
Un azionista pubblico tanto inefficiente e furbastro accolla alla collettività un doppio costo improprio: quello delle perdite della compagnia, finché a controllo pubblico, nonché quello dell’ingiustificato aggravio di costo a parità di tratta interna che sulle tariffe Alitalia continua a pesare, e che pagano tutti coloro che decidono di volare con la compagnia di bandiera sul mercato nazionale. Chiunque conosca i fondamentali del settore aereo – quelli grazie ai quali in altri paesi europei casi analoghi, sia pur talora meno gravi, sono stati affrontati con un mix di procedure concorsuali e di rifondazione da parte di nuovi soci delle ex compagnie di bandiera che perdevano denari, come nei diversi casi di Sabena o di Swiss Air – sa da anni che i problemi di Alitalia sono: il doppio hub Fiumicino-Malpensa, insostenibile per costi di armamento paragonati a volumi di traffico e ai margini della compagnia; il perimetro di business, comprendente i servizi; l’organico pletorico; i costi del personale, inerziali in quanto trascinati dai contratti “storici”. Sono queste le quattro decisioni “di svolta” che l’azionista pubblico si è sempre rifiutato di assumere. Ciascuna di queste comporta scelte e conseguenze da fronteggiare.
Soprattutto la prima, che per non danneggiare l’intero sistema del trasporto aereo nazionale e per non risultare incoerente con il volume e la redditività marginale del traffico generato dal Nord del paese, avrebbe dovuto e dovrebbe ancora essere conseguente alla formazione di un “polo settentrionale” del trasporto aereo, altrettanto privato di quello integrato internazionalmente al quale dovrebbe essere ceduta Alitalia su Fiumicino. Come da mesi ha chiesto Formigoni, puntando a coalizzare forze private interessate agli asset aerei del Nord. Ma la sua richiesta è rimasta inascoltata, finora.
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