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Alfie Evans. Meglio l'ultrà del sofista

«Non era un bambino», scrivono certi intellettuali che se la prendono con la cagnara dei prolife. Non così i supporter di Everton, Lazio, Legia, Benevento, Roma

Caterina Giojelli
03/05/2018 - 11:17
Società
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Sopra, lo striscione srotolato dagli Irriducibili della Lazio in trasferta a Torino il 28 aprile, giorno dopo la morte di Alfie Evans. Sotto, lo striscione comparso nella curva dei tifosi della Roma nella semifinale del 2 maggio contro il Liverpool

Si erano conosciuti così, in una giornata fredda di novembre. Tom Evans era attaccato alla ringhiera del parcheggio del Goodison Park di Liverpool, aveva l’aspetto stravolto, malnutrito, «ma aveva la maglia dell’Everton: non voleva nulla da me, voleva solo che tutti sapessero del suo ragazzo e cosa stesse passando». Bill Kenwright, presidente dell’Everton, si era avvicinato alla ringhiera e l’aveva ascoltato, aveva ascoltato la storia di suo figlio Alfie ricoverato all’Alder Hey, delle giornate trascorse 24 ore su 24 da due giovanissimi genitori accanto al loro piccolino che Tom non lasciava nemmeno per vedere la partita: solo a fine match scappava fuori in fretta per raggiungere lo stadio, perché più gente possibile, in quel posto che era per lui una seconda casa, sapesse di Alfie, dei giudici, cosa stava accadendo. Kenwright non sapeva nulla della famiglia Evans, ma sapeva questo degli evertoniani «che sono leali, sono risoluti e, per Dio, si prendono cura dell’Everton fino alla fine dei loro giorni». E aveva deciso di aiutarlo.
10 MILA STERLINE. I genitori di Alfie ricevettero una donazione dal presidente a fine febbraio, quando il destino di loro figlio era ancora appeso al verdetto dell’Alta Corte di Londra. Fu una miccia: Kenwright accese una gara di solidarietà tra tifosi che consentì in fretta agli Evans di raccogliere diecimila sterline (quasi 14 mila euro) per sostenere la loro battaglia. Una battaglia che era diventata anche quella degli evertoniani. Nei momenti più bui Tom indossava la maglietta dell’Everton in ospedale, e con la stessa maglia vestiva con grazia e pazienza il suo Alfie, come prima di una partita importante. Un gesto umano, elementare, come metterlo al mondo, andare allo stadio con gli amici, vestirlo dello stesso sogno che lui aveva da bambino: giocare come Rooney, tornare a casa con il figlio dopo essersi sgolati per tifare Everton. Ma che ne sanno quelli che vorrebbero strappare l’individuo al proprio territorio d’origine, alla tribù per allevarlo al mondo moderno, alla scuola delle buone pratiche e del best interest?

«ALFIE NON È MAI STATO UN BAMBINO». Ha scritto Laura Zambelli Del Rocino, da «liberale istintiva non allineata a dogmi e ideologie» sul blog della Fondazione Luigi Einaudi, che bene ha fatto lo Stato a decidere per Alfie, che bene fa lo Stato a tutelare i minori (decidendone la morte?, ndr) qualora i genitori non siano all’altezza del compito. A dimostrazione della sua tesi su Alfie ricorda che «il 70 per cento della pedofilia viene consumata in famiglia, le dipendenze da droghe e alcol non sono prerogativa dei figli, i testimoni di Geova e i naturalisti arrivano a uccidere i propri bambini con l’omeopatia pur di non far ricorso a chemioterapie e sostanze “nocive”, i novax fanno di peggio, creano presupposti ex ante affinché si ammalino anche se nati sani». Del Rocino in altre parole usa l’esempio dei pedofili e dei drogati per parlare dei genitori di Alfie («sono sicura che non fosse sete di pubblicità, poveracci, solo una disperazione che ha trovato nella condivisione mondiale un po’ di sollievo. Ciascuno reagisce come può») arrivando a una signora affermazione: «Alfie non era più e forse non era mai stato un bambino, nell’accezione della completezza umana».

I SOFISTI E GLI HOOLIGANS. Eppure questo che “forse non era mai stato un bambino”, figlio di due “poveracci”, appena è stato “tutelato” dallo Stato, cioè strappato dai supporti vitali, ha reagito da uomo. Manifestando sopravvivenza fino all’ultimo, incalcolabile respiro – e questo è un fatto, signori della Corte, signor Stato, signora premier Theresa May (che proclama oggi «tutte le decisioni sull’assistenza medica vitale ai bambini devono essere fatte dai clinici», ricomprendendo nel concetto di assistenza medica vitale la morte procurata), signor Guardian (che scrive oggi che il “caso Alfie” è stato montato ad arte dai prolife di tutto il mondo), signora Zambelli Del Rocino. Un fatto, non una tribunalata, non un sofisma intellettuale. E ci volevano gli incolti hooligans per riconoscerlo, riconoscere un bambino ancora oggi quando ne vedono uno.
TIFO DA STADIO. C’è chi ha stigmatizzato il tifo da stadio per la vita o la morte di Alfie sui giornali e sui social, c’è anche chi si è indignato per gli striscioni esposti da Legia Warszawa, Lazio, Benevento, Roma per salvare o ricordare il guerriero Alfie Evans – perché si sa, gli ultras sono buoni solo per esercitare la nostra superiorità morale quando si tratta di ricordare “siamo tutti Anna Frank”. Peccato che lo stadio non sia un giornale né un social e, ci piaccia o meno, mentre noi altri individui a norma ci esercitavamo a strascico dei medici, dei giudici, dei vescovi inglesi in ostinate diatribe sulla qualità della vita e la dignità della morte, gli ultras di Liverpool capivano esattamente come andava capita la questione di Alfie, null’altro che una questione di vita o morte. Ci voleva il manicheismo guerriero di chi ogni settimana tifa per vincere, di chi si divide sempre in guelfo e ghibellino, di chi ancora crede nelle bandiere e negli eroi locali per appiccicare Tom e avvicinare Kenwright alla stessa ringhiera.
ORGOGLIOSO DI TE. Ci voleva una maglia dell’Everton e una giornata di novembre per tentare tutto, per provare a portare a casa carne e ossa di un bambino e con lui difendere il valore e l’onore di una intera comunità. E questo sentimento di appartenenza e di salvezza come dono per la stirpe e per la tribù gli intellò non lo capiranno mai. Il primo maggio Kenwright ha invitato alla cena e alla cerimonia di fine stagione il giovane padre per consegnargli davanti a tutti i campioni della Philharmonic Hall il premio Blueblood, riconoscimento consegnato ogni anno a chi incarni lo spirito evertoniano. Era la prima volta che Tom compariva in pubblico dalla morte di Alfie e poco prima aveva sussurrato al presidente: «Sarebbe orgoglioso, non è vero?». «Sì Tom, Alfie è orgoglioso ogni secondo di te». Bisogna essere un po’ tribali e incolti fino al midollo per tornare a colmare di dignità umana il nome di un bambino malato altrimenti ostaggio di grandi pensatori, così impegnati a versare inchiostro sul concetto di proprietà e del suo migliore interesse da lasciarlo crepare indegnamente di fame e di sete.

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