Alberto Zanini, un prete per rifare un popolo a Dio
Il 20 marzo 1992 moriva in un incidente in montagna don Alberto Zanini, parroco di Vernazza, uno dei paesi delle Cinque Terre (La Spezia), aveva 36 anni. La casa editrice Nimep Docete nel trentennale della morte ha pubblicato, la nuova edizione di “Don Alberto Zanini. Per rifare un popolo a Dio”.
Dice Chesterton che conoscere un uomo, anche se lo si incontra solo per un’ora o due, è l’avventura più affascinante del mondo. Dice anche che un uomo non lo si conosce mai fino in fondo.
Io non ho conosciuto di persona don Alberto Zanini, l’ho incontrato grazie ad Anna Riccardi, sua carissima amica, dopo la sua morte e solo attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto e i suoi quaderni di appunti. E non ho incontrato il suo pensiero, le sue riflessioni, i suoi sentimenti… ho incontrato un uomo.
Che tipo d’uomo? Ho cercato di scriverlo nell’introduzione di questo libro che raccoglie i testi delle sue omelie, delle sue lettere e di molte testimonianze su di lui.
1 – Un amico, un amico buono, uno che senti immediatamente compagno al tuo cammino, uno che viene a trovarti a casa e vede che il televisore non funziona, ma che per te è importante perché sei allettato, esce e dopo un’ora torna con un televisore nuovo, il suo.
Ma non ti offre solo il televisore, ti offre la sua vita, il suo tempo, ciò a cui l’ha affidata (dare la vita per l’opera di un altro), perché per lui l’amicizia è l’aiuto vicendevole a scoprire il significato dell’esistere, il senso di tutto ciò che accade. L’amicizia è un’esperienza che allarga il cuore, cioè rende più coscienti del desiderio che lo costituisce. Sempre Chesterton diceva che lui si fece cristiano perché il cristianesimo era una filosofia “più larga”.
Più larga vuol dire più capace di abbracciare anche chi è molto diverso da te. Un pittore non credente che si sentiva spesso con don Alberto, anche da New York dove viveva ed esponeva ha detto: “Eravamo compagni di cammino verso la verità della vita”.
2 – Alberto era un uomo pieno di memoria. La parola chiave della sua coscienza era la parola memoria. Incontrò il cristianesimo come un fatto interessante e decisivo per la sua vita nel 1973, a scuola. Quattordici anni dopo, nel 1987 disse questa frase: “Penso a una sola cosa, penso tutta la vita a quello che mi è accaduto”.
Noi al verbo pensare diamo solitamente un’accezione astratta, eterea, distaccata dalla realtà: “Io penso” equivale a “la mia opinione è”, Alberto lo usa con tutt’altra profondità. Per lui la memoria non era un atto intellettuale, ma un’esperienza, un moto di vita, coincideva con il vivere: “La vita – diceva – la senti scorrere nelle vene oppure è un’incomprensibile follia”. Ed è una memoria è che riempie di commozione amorosa. C’è una frase di padre Etienne Pernet, un assunzionista francese dell’800, fondatore delle Suore di Assunzione che esprime bene quest’idea di memoria. Diceva Pernet alle sue suore parlando di Cristo: “Vivete con Lui come con qualcuno che si ama”.
Alberto aveva una percezione fisica della presenza di Cristo. Che cosa questo voglia dire l’ho capito in modo irrefutabile dall’episodio raccontato da una sua parrocchiana della Val di Vara, in una frazione con una chiesetta dove lui andava a piedi, anche con la neve, per celebrare Messa per dieci persone. Pulendo questa chiesetta una volta trovò dei resti ostie dietro il tabernacolo, uniti a polvere e anche a qualcosa che sembrava escrementi di topo. Non sapeva se quell’ostia fosse consacrata o no, ma nell’incertezza mangiò tutto, poteva essere il corpo di Cristo.
3 – “Ci ha insegnato a pregare e cantare” ha detto una delle sue parrocchiane. Per lui canto e preghiera erano il vertice della domanda inquieta che contraddistingue l’uomo e nello stesso tempo, per il cristiano, una domanda certa. Al termine di una gita un ragazzo andò a parlargli della sua insoddisfazione per come era andata. Alberto non si era accorto di nulla, ma ascoltandolo commentò: “Era molto più umano il suo star male della mia tranquillità”.
Così scrisse a un amico: «Non c’è distanza, non ci può essere il distacco dell’estraneità, né l’abisso che l’odiosa e gelida indifferenza fa presto a scavare, non ci può essere incapacità di intendersi tra gli uomini che non si stancano di desiderare ciò che è vero, che non lasciano inaridire la loro passione alla vita, ma sempre rinnovano l’attesa di un “più” che si deve prima o poi svelare […]. Che cosa resta di un uomo quando non conosce più l’esperienza di questa attesa? […] Ti chiedo di essere fedele fino in fondo al desiderio che hai dentro di una vita vera, di rapporti più umani, di un significato e di un amore che abbraccino tutta la tua vita e le donino una continua fioritura».
Per capire questo nesso tra preghiera, canto e inquietudine credo che nulla sia più appropriato delle parole che don Luigi Giussani usò quando parlò del canto “Povera voce” all’incontro dei movimenti ecclesiali del 1998.
“Povera voce è la prima intuizione e la prima espressione artistica che il nostro movimento ha avuto. Tale intuizione è la stessa dell’Ulisse dantesco ‘Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza’: la vita ha un perché, ci è stata data per un perché e vibra di questa certezza, che è un’indomabile tensione ad essere posseduta da un respiro eterno. “Non può finire, non può morire: la voce che grida e canta l’eco di questa promessa è ciò per cui ‘viviamo, ci muoviamo ed esistiamo’. Cantando queste parole noi diamo voce a un’affermazione lieta, accorata e appassionata della positività del vivere, ossia facciamo memoria di ciò che Cristo è venuto a portare nella vita del mondo […] questa voce è la cosa più preziosa del mondo, ed è ciò che ci accomuna e ci mette insieme: è l’origine e il destino del nostro popolo”.
4 – il popolo. Alberto associava la sua vocazione alla costruzione della Chiesa come fatto di popolo, come comunità. Aveva molto chiaro che nella Chiesa il popolo stava venendo meno.
Per lui il popolo non era la massa, ma una comunità che vive della fede consegnataci dalla tradizione che diventa convinzione personale di ognuno. Lui aveva ben chiara l’origine dell’unità consapevole che viveva. Era evidente nel suo parlare, nel suo pensare, nel suo agire. Il test? La gente non si fermava a lui, andava all’origine della sua originalità. Un bellissimo esempio di questo percorso è quello di una signora di La Spezia, dopo la sua morte comprò tutti i libri di don Giussani, finiti i libri andò dagli amici di Cl di La Spezia dicendo: “I libri non bastano, vengo con voi”.
5 – la coscienza della morte. Fin da giovane quest’uomo si è misurato senza reticenze con la morte. Non la censurava, né quando vi si imbatteva (funerali) cercava consolazioni sentimentali. Per lui la morte era il fatto che più accendeva la domanda sulla vita, come disse al funerale di un ragazzo morto di overdose di droga: “Dal profondo a te grido o Signore, dalla profondità smisurata di quell’abisso di dolore in cui Tu permetti che talvolta passiamo”. La morte rivela la sua ultima, inspiegabile a parole, umanità nel far riemergere questa domanda, altrimenti tutto è vano: “Poveretta non è la persona che muore, poveretti siamo noi per i quali tutto accade invano”.
Questa drammaticità nutrita di certezza e di gioia gli fece scrivere il suo testamento a soli 34 anni. Non aveva paura di morire, l’aveva scritto – disse quando lo consegnò in curia – in un momento di grande gioia e gratitudine.
Eccolo: “Di fronte alla prospettiva certa della morte riaffermo la ragionevolezza e la bellezza della fede in Gesù. Sono felice di aver vissuto, e la sorgente di questa felicità sta tutta nell’incontro fatto con coloro che sono stati per me il sacramento di Cristo, il segno della sua presenza, il luogo visibile della sua verità e della sua bontà. Perciò, insieme ai miei genitori, che sempre mi hanno amato e sostenuto con tutte le forze, ricordo con affetto e gratitudine immensi tutti gli amici del movimento. Implorando perdono, mi consegno tra le braccia della misericordia di Dio. Sarei contento se durante il funerale si facessero molti canti, specialmente quelli polifonici, e nell’omelia venisse ripetuto il gioioso annuncio cristiano, l’annuncio del centuplo quaggiù e della resurrezione alla vita eterna. Mi piacerebbe anche che in cimitero, prima della sepoltura venisse letta la preghiera di san Gregorio di Nazianzo che inizia con queste parole: Se non fossi tuo, mio Cristo…”.
Venuto a conoscenza del suo testamento, dopo che don Alberto era già morto, don Luigi Giussani, che non lo conosceva personalmente, così lo commentò: «Tutti a mano Tua, Signore, come in una vigilia di Pasqua in attesa della Risurrezione. Il vincolo di questa unità è un’autentica gloria. Queste non sono parole: dipendono dalla tua coscienza, dipendono dalla tua memoria, dipendono dalla serietà del tuo sguardo su te stesso, dal sentimento del tuo cuore su te stesso, dal tuo sguardo a chi ti sta vicino. Dipende da te. L’avvenimento ti ha investito: dipende dalla tua libertà; questo crinale ultimo, sottile come un filo. Lo scrive don Alberto Zanini due anni prima di morire. Questa è la patria. Precaria, provvisoria ma vera: l’attesa alla vigilia della Pasqua, l’attesa della resurrezione finale. Questo non è un mitico santo: è il nostro prete di La Spezia. Se foste in due o tre come questo prete!».
Qual è, in conclusione, il punto sintetico del percorso della sua vita? Lo dice bene monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, nella prefazione a questa nuova edizione: La ragionevolezza della fede.
Il 21 gennaio 1986, in un’omelia don Alberto disse: «Quando un figlio chiederà ai genitori: ma perché credi in Dio? Perché sei cristiano? Allora i grandi non potranno fare a meno di raccontare una storia, anzi la storia, la loro, che poi è anche la nostra. Dovranno raccontare dei fatti, rievocare dei volti, dovranno spiegare certe parole con la carne viva degli avvenimenti, dovranno cominciare col dire: “Vedi, tutto è cominciato il giorno in cui mi è capitato che …, la volta che ho visto e udito … Allora ho iniziato a capire che davvero Dio è amante della vita, che è presente tra noi e trasforma chi Lo accoglie, che ci dà il centuplo quaggiù”. Dio si dimostra nella storia. Questa è la ragione per eccellenza! Perché non mi basta che tu mi dimostri intellettualmente la ragionevolezza della fede: io ho bisogno di poter vedere sulla tua faccia, nelle tue parole, nel tuo modo di essere, in quello che fai che Dio è tutto per te, che Egli compie e realizza la tua umanità, che ti infonde coraggio e voglia di vivere! L’unico scopo della nostra amicizia è Tutto sta in questo dialogo tra il suo desiderio e l’incontro con la “ragione” che nello stesso tempo lo compie e lo perpetua.
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