Affrontare lo sciopero selvaggio col tacco dodici
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«Ma signori, io non sto scioperando, ho solo finito il turno, sto rientrando in deposito»: brutto colpo addormentarsi Braveheart e risvegliarsi William Wallace per l’autista della 61 che ha ultimato la corsa in piazzale Cadorna. Basta aprire le porte di un autobus perché un solitario eroe del popolo che ha guidato per mezz’ora i concittadini nel caos dello sciopero di Milano venga processato per alto tradimento? Certo, se è il 5 aprile sono le nove e mezza del mattino e la città sta vivendo la peggiore giornata degli ultimi 13 anni, almeno così si dice ai crocicchi delle stazioni dei taxi, dove increduli e disgustati i visitatori del Salone del Mobile aspettano invano vetture e spiegazioni.
Milano questa mattina profuma di legna che brucia, neanche Michele Serra dalla sua amaca riuscirebbe a non versare una goccia di sudore a beneficio o insulto degli incolti contemporanei che cercano un mezzo, si stringono nei cappotti e affilano i forconi come se una volta qui fosse tutta campagna. Perché Milano campagna non è lo mai stata, non collabora con i ritmi scanditi dall’avvicendarsi delle stagioni, le nebbie, la puzza di letame, Milano è come quel vecchio signore milanese che appoggiato alla balaustra di San Babila guarda giù per la scala che scende sotterra, e pensa: «Eccoti qui finalmente metropolitana benedetta, quanti anni sono passati, Dio mio, aspettandoti. Ero ancora bambino, ricordo, che mio nonno vagamente ne parlava, e ne parlava mio padre, generazioni intere. Fantasticando di tunnel sepolti con dentro fulminei treni da Giulio Verne che avrebbero fatto di Milano la prima città della terra». Così raccontava Dino Buzzati nell’articolo “Purosangue milanese” scritto per il Corriere quando, il 1 novembre 1964, venne inaugurata la prima linea rossa, mentre la banda intonava l’Inno nazionale, la marcia trionfale de l’Aida, seguita dalle note di O mia bela Madunina, e del motivo coniato dal maestro Giovanni D’Anzi, Metropolì Metropolà.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Per questo vedere le serrande delle stazioni calate è una schioppettata al cuore e alle certezze milanesi: quando mai uno sciopero dei mezzi ha realmente impedito a qualcuno di raggiungere scuole, ospedali, posti di lavoro, fiere? Mai, di Braveheart della 61 ce ne sono sempre stati, e metropolitane solitarie che portano «il segno del coraggio e della tenacia dei milanesi» (è l’indimenticabile espressione del dimenticato sindaco degli anni Sessanta, professor Pietro Bucalossi) hanno sempre viaggiato. «Lho fiela, Lho fiela», è il mantra degli orientali che assaltano il personale di Trenord a Cadorna, che sforbicia all’impazzata foglietti con le indicazioni per la massa internazionale di visitatori che si riversa in stazione in cerca di un piano B per andare a Rho, dove è in corso il Salone. «From Milano Cadorna any train to Milano Bovisa (2 stops). From Milano Bovisa trains direction Pavia, Rogoredo or Lodi get off in Milano Lancetti (1 stop). From Milano Lancetti trains direction Novara (s6) or Varese (s5) (3 stops)», è il testo del pizzino servito con assistenza psicologica in lingue sconosciute («ma io devo andare a Garibaldi», chiedi in italiano, «any train to Milano Bovisa, two stops…» è comunque la risposta). Sui treni si sta come gli ultimi pastori transumanti d’Abruzzo, con greggi di trolley, e facce da milieu sessantottino. Le porte bloccate uniscono nell’improperio blasonati individui in abito firmato e fidanzate dell’Est Europa. E l’Eldorado Garibaldi sembra ancora lontanissimo.
Non spiace assistere all’eclissi dell’understatement milanese dei gran borghesi tutti domeniche-a-piedi, maratone e comitati antinfrastrutture, così sensibili alle cause civili e a tubare con i sindacati, spiace che l’eclissi sia segnata dallo scivolamento collettivo di chiunque si trovi a Milano, turisti, occupati, disoccupati, nell’orrida specie del cittadino-consumatore. Roba che a strizzarne l’essenza e a leggere twitter dà cattivissimo brodo, peggiore di quello dei sindacati che finisci per immaginare aver scritto la “Lettera aperta a chi vive, lavora e ama Milano” con la smorfia sprezzante della diva sulla Promenade de la Croisette.
Ieri infatti girava per la città questo volantino per spiegare le ragioni dello sciopero indetto da Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Orsa, Ugl, Faisa-Cisal e Cub, cioè tutti: al centro della protesta, la convenzione tra Atm e Comune che scade a maggio e a seguito della quale verrà fatta una gara per l’affidamento del servizio urbano. Nella lettera si chiede che la giunta ritiri la delibera con cui è stato avviato il percorso verso una gara che potrà portare allo spezzettamento del sistema della mobilità, e di mettere il gruppo Atm in condizioni di partecipare a un’unica gara evitando il dumping tra più soggetti e il rischio perdita qualità di servizi e posti di lavoro. Il sindaco Beppe Sala ha escluso la via delle precettazione: «Per me è uno sciopero sbagliato ma rispetto il diritto dei lavoratori», e poi «alla Fiera di Rho si può arrivare anche in treno», quindi i sindacati hanno gentilmente avvisato i cittadini «il 5 aprile avrai dei disagi ma (…) scioperiamo per il futuro di Milano. Anche per te». Malissimo.
A parte che non è scontata neanche per i milanesi la grazia di sapere quale differenza passi tra metropolitana, passante ferroviario e treno regionale e come e dove acchiapparli e mixarli, la verità è che qualunque cosa avessimo di più o meno importante da fare, questa mattina da cittadini-consumatori pedanti e lamentosi abbiamo il diritto di proclamare che: lo sciopero è patrigno della grande Milano, città adottiva per eccellenza; è il fratellastro delle palme pelose che guardano la montagna di marmo del Duomo innalzata con l’obolo di mercanti, mercenari, vecchiette e prostitute; è la nemesi della storia dei Marcello Candia e degli Emilio Grignani benefattori mai estranei al proverbiale coeur in man che apre la porta al prossimo invece di chiudere il mezzanino.
Lo sciopero insomma è il male. Soprattutto se da cittadino-consumatore hai a cuore l’immagine della tua città quanto la tua. E quindi stai girando dalle otto e quarantacinque con il tacco dodici. E hai camminato per due chilometri fino a Cadorna. Che sono sembrati dodici perché hai avuto la stessa idea delle folle imbellettate scaricate dai mezzi ed espulse dalle metropolitane. E ti sei messa in coda a quattro stazioni di taxi diverse e hai abbandonato l’idea dopo aver calcolato che ci sarebbero voluti almeno trentotto vetture prima che fosse arrivato il tuo turno. E hai chiamato tutti i numeri di servizio taxi che conosci e neanche sei riuscita a prendere la linea. E hai dato informazioni a chiunque per andare ovunque e consultato il cellulare per essere più precisa (la ricerca più gettonata è stata “design pride street parade”, che però inizia alle 18 e quindi poi hai dovuto consigliare a un gruppo di russe che fare in una città paralizzata fino ad allora). E hai ricevuto a tua volta informazioni in inglese per incrociare passanti ferroviari e destinazioni. E sei arrivata in ufficio con due ore e un quarto di ritardo. Per fare quattro chilometri in tutto, che proporzionando altezza del tacco e velocità potevano essere percorsi a piedi in un’ora.
Ma questo non è importante, non dovevi andare lontano o in ospedale, non hai perso un biglietto del Frecciarossa, non hai mancato l’appuntamento di una vita. Forse stai semplicemente pregustando l’attesa di quel momento in cui, questa sera, tornerai in metropolitana e come quel vecchio signore di Buzzati il giorno dell’inaugurazione della linea rossa, sentirai svanire la mortificazione che la tua Milano fosse giunta ai mezzi così in ritardo: «Il progetto era vecchio sì di cento anni, però il risultato non sapeva di muffa, tutt’altro. […] Quei dodici chilometri, quelle ventuno stazioni erano nuove in modo impressionante, con un sapore più di domani che di oggi». Di domani appunto, perché forse invece oggi è solo il giorno in cui sei diventata un cittadino-consumatore e quel signore sulla balaustra lo prenderesti a calci con i tacchi.
Foto Ansa
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