Affollati da morire

Di Manes Enzo
15 Novembre 2007
I delitti, la musica, i ciclostile. Negli anni Settanta in mostra a Milano mancano solo quelli che cianciavano di Cristo e questione operaia. E al posto di Giorgio Gaber c'è Dario Fo

Al bar dello sport c’è la macchina per il caffé della Faema, il flipper, il juke-box con incastonati i 45 giri del momento, la Gazzetta aperta quasi a rendersi tovaglia sul tavolino che sa di fumo. Alla parete la foto di Mariolino Corso che caracolla con i calzettoni abbassati alla Sivori. Il televisore in bianco e nero è collocato sull’angolo alto del locale pubblico, perennemente acceso. Ora è in onda una partita. No. La partita: Italia-Germania, Città del Messico, giugno 1970, mondiali di pallone. 4 a 3 per gli azzurri di Valcareggi. Pressappoco così uno dei ventisei luoghi che fanno la mostra “Annisettanta. Il decennio lungo del secolo breve” (Triennale di Milano, fino al 30 marzo). Un percorso labirintico dentro una stagione affollata, perlomeno contraddittoria, per certi versi creativa, per molti altri intollerante, ideologica, violenta. Di piombo. Da notte della Repubblica. La vivi, la respiri, l’annusi, la rincorri con gli occhi: installazione dopo installazione. Ancora televisori accesi. Parte un’edizione straordinaria del Tg1 e Bruno Vespa che legge l’agenzia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 in pieno centro a Roma. E qui l’installazione è drammatica con la ricostruzione della disumana gabbia dove il presidente della Democrazia Cristiana subì il processo brigatista. Minuscola la cella arredata di una branda, un wc chimico, una bacinella, una mensola con sopra una risma di fogli in formato A4, una penna, una bottiglia d’acqua, un rotolo di carta igienica e del sapone.
Dal 9 maggio 1978 al 2 novembre 1975. Pure stavolta è quell’elettrodomestico a forma di scatola a dare la notizia, tragica, dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini. La rievocazione è insieme inquietante e sbalorditiva. Una camera oscura con due fari di automobile che ti sparano contro. Altro non si può vedere, occorre avvicinarsi e allora ti imbatti nella sagoma di un’Alfa Romeo Gt Veloce del 1975, lo stesso modello che utilizzava Pasolini e usato dal killer per martoriarlo sulla squallida scena di Torvaianica. Ardua l’impresa del curatore Gianni Canova (docente di Storia e critica del cinema allo Iulm di Milano) di schiacciare, pressare, anche armonizzare quel lunghissimo decennio che per forza di cose deve incominciare con la bomba a Piazza Fontana, all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura, quel 12 dicembre 1969. Fa impressione scorrere l’elenco di quanto accadde in ciascuno di quegli anni. La gran parte è la didascalia di morti ammazzati sulla strada per via di quella ubriacatura ideologica del “hazet 36 fascio dove sei”. Del “se vedi nero spara a vista”.
Ma pure a parti invertite certo non si scherzava con quei bravi ragazzi di Ordine Nuovo e nei Nar in servizio permanente effettivo. C’è la stanza dedicata a cortei e slogan. Alla rabbia, alla ribellione che non ha più nulla di ingenuo. Quelli che sono bravi a fare sociologia dicono che di lì e dai fogli di lotta meno stalinisti sono venute fuori le menti migliori della comunicazione, degli spot pubblicitari. E che sarebbe profondamente sbagliato ridurre quel decennio a solo sangue, agguati, distruzione e autodistruzione. La mostra segue quel punto di vista non tacendo la tragedia ma presentando, il più possibile stando alla larga da una gerarchia della memoria. Come se fosse uguale visitare la cella di Moro e soffermarsi nella stanza di come era bello il vinile. Oppure ascoltare la mamma di Fausto Tinelli, ammazzato come un cane insieme a Iaio Iannucci in una via accanto al Leoncavallo, al telefono su Radio Popolare per dire che suo figlio non era uno spacciatore e che quella sera gli aveva preparato il risotto. E solo pochi metri più in là magari incontrare l’esplosione di una moda e di un design chiassosi e arditi. Si sorride anche, però. Con la sfilza di locandine trash su un cinema italiano scollacciato che ha fatto delirare la “peggio” gioventù per l’abbondante Edvige Fenech e l’acqua cheta Gloria Guida; e che sembrava la risposta liberatoria alla snervante ritualità del cineforum sempre e comunque: così una coscia tornita salvava dall’interminabile e silenzioso piano sequenza. Si ricordano i festival musicali, quelli planetari di Woodstock e del concerto per il Bangladesh e quello più nostrano del Parco Lambro promosso da Re nudo. Le immagini rimandano un Eugenio Finardi che canta la sua passione per la radio che libera la mente con stacchi su facce un po’ così del mitico proletariato giovanile. Quella del 1976 fu l’ultima edizione perché l’organizzatore Andrea Valcarenghi rimase sconfortato dall’assalto di un’ala del movimento al camion-frigorifero per accaparrarsi i polli destinati agli stand.
Si tiene alto l’onore della cultura. Fellini e l’enigmatica palla che sfonda il muro della stanza di Prova d’orchesta. Il teatro di Carmelo Bene e dell’immancabile Dario Fo. Suggestivo il luogo della parola cioè i Settanta in letteratura con incollate alle pareti le prime pagine di alcuni scritti. Siamo quasi esclusivamente a sinistra. Che ci sia forse stata una certa egemonia? Parrebbe di sì imbattendosi in alcuni fogli dell’epoca, nelle testate militanti come Potere operaio, Il Manifesto e Lotta continua. Come nei volantini, che rimandano al tempo dei ciclostile. Li vediamo svolazzare sopra la testa. Leggeri ma pesanti nei contenuti. Definitivi. Parole d’ordine di un disordine sotto il cielo. Le sigle quelle che andavano per la maggiore, che si contendevano la testa del corteo, che stavano alla sinistra del grande e glorioso Partito Comunista che fu di “Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer che cazzo c’entra il primo con gli altri tre”. Ma chissà qual è il gruppuscolo che firmava quel volantino dal titolo inquietante “Cristianesimo e questione operaia”. Scritta in azzurro e non con il rosso d’ordinanza. Comunione e Liberazione. Così in alto non si arriva a leggerne la sostanza. Mah, cosa non si faceva per conquistare un briciolo di agibilità politica. Non ha funzionato lo stesso. Gli altri, i democratici, menavano i ciellini. Nella mostra naturalmente non si mostra. Fabrizio De André, i cui testi feriscono questo avventuroso e problematico viaggio scandendone il ritmo, non avrebbe condiviso. Per non dire di Gaber, totalmente trascurato infatti. Si è scelto Fo. Mistero buffo questo.

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