Accanimento diagnostico

Di Fabio Cavallari
17 Maggio 2007
Mentre i progressi della medicina permettono di salvare neonati sempre più prematuri, dilaga la smania di selezionare figli sani. Ma non sempre la scienza onnipotente ci azzecca

Due mesi fa un neonato di 22 settimane moriva presso l’ospedale fiorentino di Careggi, dopo essere sopravvissuto per alcuni giorni a un aborto terapeutico. I genitori avevano deciso di interrompere la gravidanza per una sospetta malformazione allo stomaco, un’atresia dell’esofago, rivelatasi poi inesistente. Secondo una recente indagine del British Journal of Obstetrics in 102 dei 3.189 aborti terapeutici (ossia decisi dopo diagnosi di malattie gravi sul nascituro) portati avanti nel Regno Unito tra il 1995 e il 2004, i feti sono nati vivi. Significa che uno su trenta di questi piccoli ha resistito quanto meno qualche ora. Ce n’è abbastanza per dire che quello di Careggi, che ha sconvolto e sorpreso l’Italia, è qualcosa di più di un caso limite? È un fatto che solo in età gestazionali particolarmente basse (inferiori alla ventunesima settimana) il bambino nasce privo di ogni segno di vitalità. Tanto che proprio dopo il caso di Careggi alcuni medici hanno avanzato la proposta di far firmare alla donna una sorta di “consenso informato” con cui si rinuncia a terapie intensive in caso di sopravvivenza del feto e si dà il via libera solo a cure compassionevoli.

Il paradosso
Si vive quindi un paradosso. Da un lato, grazie alle tecnologie sempre più avanzate, il bambino potrebbe sopravvivere di più rispetto a quanto era possibile, ad esempio, una decina di anni fa; dall’altro, per evitare problematiche legali, si richiede espressamente l’autorizzazione ad abbandonare a se stesso il feto nato vivo.
Dopo il dramma di Careggi, il prof. Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) ed ex ministro della Sanità, ha proposto una modifica della 194 per fissare come limite massimo per il cosiddetto aborto terapeutico la ventiduesima settimana di gravidanza, anziché la ventiquattresima, soglia definita attualmente dall’abituale pratica clinica. Una proposta importante, secondo il professor Firmino Rubaltelli, direttore della terapia intensiva neonatale poprio all’ospedale di Careggi. «In alcuni centri come la clinica Mangiagalli di Milano questo intento è già diventato norma. Abbassare a 22 settimane il termine per l’aborto terapeutico è un atto di buon senso, vuol dire in pratica essere sicuri che il feto non è vitale. Alla ventiquattresima settimana si rischia davvero di non prestare le cure ad un bambino che potrebbe vivere. È un’ipocrisia non accorgersene». Secondo Carlo Bellieni, neonatologo del Policlinico Universitario Le Scotte di Siena «il prof. Veronesi ha riportato alla luce il fatto che la legge 194 non dà un limite temporale in settimane oltre cui non fare il cosiddetto “aborto terapeutico”. Insomma, chi ha fatto la legge sapeva che le capacità della medicina sarebbero cambiate nel tempo: quando fu fatta la legge 194, nel 1978, la soglia della sopravvivenza era 26-27 settimane, ora è 22-23 e se un feto nasce vivo la legge giustamente lo tutela. E se fra 10 anni saremo più bravi. chissà quali piccolissimi potranno sopravvivere: perché non tutelarli?».
La realtà, spiega il neonatologo Guido Cocchi, dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, è che spesso «nessuno considera il feto, non la mamma che non vuole sapere o non deve sapere, non l’ostetrica che rapidamente vuole concludere la “procedura”. Il disagio è evidentemente molto forte, ma non può di per sé giustificare comportamenti di totale negazione del bambino».
Uno dei fattori più ambigui della medicina moderna, continua il professor Bellieni, è l’uso massiccio della diagnosi prenatale non associata ad una corretta informazione, tanto che bisognerebbe parlare di accanimento diagnostico più che di accanimento terapeutico. «Nel nostro paese – spiega – una donna incinta si sottopone a sette, otto ecografie, quando ne basterebbe una sola. L’amniocentesi, che negli Stati Uniti interessa il 2 per cento delle donne, in Italia raggiunge percentuali del 45 per cento. Tutto questo alimenta un clima generalizzato di paura per la malattia, per l’handicap. La domanda vera da porsi è: cos’è la diagnosi prenatale? Da un lato, la stessa è da ritenersi sicuramente utile perché permette di conoscere tante anomalie che possono essere curate, dall’altro non dovrebbe mai diventare uno strumento per la selezione degli esseri umani». D’altronde, spiega il professor Rubaltelli, «la diagnosi prenatale avrebbe poco senso se non ci fosse l’aborto. Un esempio: a Firenze è stata istituita una Commissione dall’azienda ospedaliera universitaria per la diagnosi e terapia fetale precoce. In Italia però non esiste la terapia precoce chirurgica in utero. Sino a qualche anno fa, si facevano le trasfusioni di sangue in utero per i feti con malattia da Rh. Ora non si fanno più perché questa patologia è scomparsa. Veri e propri interventi chirurgici in utero si fanno negli Stati Uniti, non certo nel nostro paese. Quella commissione allora si sarebbe dovuta chiamare “per la diagnosi fetale e il feticidio”. Fuor di polemica allora è importante concentrare l’attenzione non tanto sulla diagnosi in sé, bensì su come viene gestito il rapporto con i genitori».
Il trauma che segue una diagnosi di malformazione non deve essere sottovalutato, secondo la dottoressa Patrizia Vergani, professore associato in Ostetricia e Ginecologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. «Serve un counseling adeguato – spiega – dove vengano prospettate ai genitori tutte le possibilità di cura e gli esiti a distanza di quella malattia. Per far questo occorrono centri dove diversi specialisti collaborino insieme nell’iter diagnostico ed una modalità di lavoro mediante la quale, oltre a comunicare ai genitori la diagnosi e la prognosi di una patologia fetale, li si possa aiutare in un percorso decisionale. Non basta un ecografo o un test diagnostico in qualsiasi struttura pubblica o privata per fornire un servizio. Ad esempio, la Regione Lombardia anni fa aveva individuato 7 centri di diagnosi prenatale che rispondevano a determinate qualità che potevano garantire un percorso diagnostico e counseling completi».

Il nodo del rapporto col paziente
I condizionamenti vissuti dai genitori spesso vengono traslati anche ai medici. Possibili ricorsi ai tribunali per figli nati con malformazioni non diagnosticate stanno diventando un “rischio del mestiere”. Il problema medico-legale, conclude la dottoressa Vergani «nasce dalla mancanza di rapporto medico-paziente e dalla idea utopica di medicina onnipotente. Dalla visione di un tipo di medicina che parta prima di tutto dalla difesa della categoria si sviluppa una medicina che riversa totalmente la scelta terapeutica, in nome dell’autodeterminazione, sul paziente stesso. Questo è quanto accade molto spesso nel corso di gravidanze complicate da patologie fetali, siano esse reali o presunte. Il problema vero è che le donne non hanno gli strumenti e le informazioni adeguate per essere libere nelle loro scelte e spesso rischiano di restare in balìa dei luoghi comuni o di quel che dicono i mass media».

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