A Hong Kong la libertà è fuorilegge
Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Decine di funzionari del Partito comunista cinese si sono presentati a notte fonda il 7 luglio al Metropark, un lussuoso hotel di 33 piani con tanto di piscina sul tetto situato nel cuore del ricco distretto dello shopping di Hong Kong. Lo hanno confiscato, mentre centinaia di operai costruivano lungo il perimetro esterno una recinzione alta due metri, installavano uno stemma della Repubblica popolare cinese con le cinque stelle, issavano un’asta portabandiera e coprivano tutte le finestre che affacciano sulla strada. La mattina dopo in una cerimonia chiusa al pubblico e ai giornalisti Pechino ha inaugurato il nuovo Ufficio per la salvaguardia della sicurezza nazionale. I funzionari cinesi coordineranno dal lussuoso hotel la polizia segreta comunista che in spregio alla Costituzione di Hong Kong farà il bello e il cattivo tempo in quella che fino a un mese fa veniva definita in tutto il mondo «città autonoma».
Con l’imposizione (illegale) all’ex colonia britannica della legge sulla sicurezza nazionale, il regime ha di fatto azzerato quell’ampio grado di autonomia che la Cina, firmando un trattato internazionale con il Regno Unito, si era impegnata a garantire a Hong Kong fino al 2047. La legge è entrata in vigore lo scorso 1 luglio, 23esimo anniversario della restituzione della città a Pechino da parte di Londra, e ha introdotto i reati di terrorismo, secessione, sovversione e collusione con forze straniere. Per ciascuno di questi crimini, qualunque residente a Hong Kong potrà essere arrestato dalla polizia segreta comunista, estradato nella Cina continentale, processato e ricevere pene che arrivano fino all’ergastolo.
La popolazione non ha dovuto aspettare molto per vedere gli effetti della nuova legge capestro: in poco più di un mese sono state proibite proteste pacifiche, ritirati dalle biblioteche i libri che invocano democrazia per la città, eliminati dai curriculum scolastici personaggi storici come Gandhi e Martin Luther King; è stato proibito agli studenti di parlare di politica e di cantare l’inno delle oceaniche proteste del 2019 Gloria a Hong Kong; professori universitari coinvolti nel movimento democratico sono stati licenziati dalle rispettive università e perfino fare opposizione in Parlamento è stato additato come «esempio di sovversione». Infine, quattro studenti tra i 16 e i 21 anni sono stati arrestati e rischiano l’ergastolo «per le opinioni espresse sui social», mentre 12 importanti leader democratici sono stati squalificati dalla corsa per le elezioni di settembre e altri 20 personaggi potrebbero essere messi al bando prima del voto. «È evidente che credere nella democrazia è diventato illegale. È questa la sorta di comportamento che ci si può aspettare in uno stato di polizia», ha dichiarato l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, Lord Chris Patten.
È per sfuggire a questa repressione senza precedenti che molti attivisti sono scappati da Hong Kong. Uno dei primi ad aver lasciato l’isola, destinazione Londra, è Nathan Law, 27 anni, tra i leader del Movimento degli ombrelli del 2014. Fondatore e presidente dal 2016 al 2018 del partito politico pro democrazia Demosisto, sciolto alla vigilia dell’approvazione della nuova legge, è stato nel 2013 a 23 anni la persona più giovane mai eletta nel Parlamento di Hong Kong. Inviso al regime, il seggio al Consiglio legislativo gli è stato tolto perché il suo giuramento è stato giudicato «non abbastanza sincero».
Quando e perché hai deciso di lasciare Hong Kong per il Regno Unito?
Per ragioni di sicurezza non posso dire il giorno, ma il motivo è semplice: far comprendere all’Europa che deve impegnarsi per limitare l’espansione autoritaria della Cina. Ecco perché sono qui.
Il Regno Unito ha sospeso il suo trattato di estradizione con Hong Kong, ha annunciato un embargo sulle forniture di armi ed equipaggiamento per la polizia, ha offerto di fatto la cittadinanza a tre milioni di abitanti dell’ex colonia e, infine, ha escluso il gigante cinese Huawei dallo sviluppo del 5G. Non è abbastanza?
Il governo inglese si sta impegnando più di chiunque altro per Hong Kong ma penso che dovrebbe essere ancora più assertivo verso la Cina.
Qual è, tra i tanti, l’aspetto che ti spaventa di più della nuova legge sulla sicurezza nazionale?
È scritta in modo tale da permettere a Pechino di perseguitare chiunque si opponga o critichi il Partito comunista. Faccio un piccolo esempio: uno dei crimini previsti riguarda «l’incitamento all’odio verso il governo centrale», ma che cosa significa? Criticare Xi Jinping, secondo l’interpretazione della Cina, è «incitare all’odio». Si capisce benissimo che il governo potrà usare questa legge per sopprimere politicamente l’opposizione. Basterà una frase fuori posto per essere condannati al carcere a vita, per di più nella Cina continentale. Questa legge azzera la libertà di espressione del popolo di Hong Kong.
Pechino insiste nel dire che colpirà solo uno «sparuto manipolo di persone».
Tutti sanno che mentono e basta vedere come stanno applicando la legge: arrestano cittadini pacifici solo perché sventolano una bandiera o espongono un cartello. Vogliono imporre il terrore.
Molti attivisti hanno deciso di continuare la battaglia per la democrazia a Hong Kong. Tu invece hai preferito l’esilio. Perché?
A Hong Kong è ormai impossibile promuovere una mobilitazione internazionale in difesa della città. Ora vige la censura, bisogna stare attenti, si può essere arrestati per un nonnulla. Solo dall’estero è possibile parlare per chi non ha più voce e convincere i paesi occidentali che è necessario formare un fronte unito contro la Cina. Solo così, credo, si potrà salvare Hong Kong.
Ti aspettavi che da un giorno all’altro la Cina sarebbe riuscita a cancellare l’autonomia di Hong Kong?
No, non me lo aspettavo. Siamo tutti rimasti scioccati. Chi poteva immaginare che Pechino avrebbe imposto alla città una legge così gravida di conseguenze e in contrasto con la mini Costituzione dell’isola? Anche il mondo è rimasto attonito, ma ora è necessario continuare a dire che cosa sta succedendo e portare avanti le ragioni del movimento democratico.
Nonostante le minacce, oltre 600 mila persone hanno partecipato a metà luglio alle primarie dei partiti democratici in vista delle elezioni di settembre. Te lo aspettavi?
Sì, perché conosco la mia gente. La Cina non ha ancora ottenuto quello che voleva, non ha ancora vinto. Con questa nuova legge probabilmente impedirà proteste di massa come quelle dell’anno scorso, ma la popolazione troverà sempre modi nuovi e creativi per opporsi al regime.
Il movimento studentesco a Hong Kong è tra i più vivaci al mondo e da decenni si trova impegnato nella battaglia per la democrazia. Non è un caso che la nuova legge si sia abbattuta in primo luogo sull’educazione e sulla scuola. Anche il tuo impegno è cominciato tra i banchi. Che cosa muove gli studenti?
Quando vedi, giorno dopo giorno, i problemi di una società non democratica e quando assisti in continuazione all’approvazione di leggi da parte del governo contro la volontà e il bene del popolo, come puoi non impegnarti per il cambiamento? Noi abbiamo sempre voluto essere quel cambiamento e influenzare la politica in modo pacifico.
Ora però sei stato costretto ad abbandonare Hong Kong.
Sì, ed è impossibile spiegare quanto sia stato difficile per me prendere questa decisione. Ma voglio dedicare la mia vita a combattere per la mia città, coinvolgendo la comunità internazionale.
Pensi che la Cina sia una minaccia anche per l’Europa?
È così ed è ora che ve ne rendiate conto. Tutte le democrazie, anche in Asia, dovrebbero fare fronte comune per combattere il regime comunista.
Hai in programma di rientrare a Hong Kong?
Mi piacerebbe, ma a causa del mio impegno passato e presente dubito che il governo me lo permetterà.
Che cosa sarebbe successo se avessi fatto questa intervista da Hong Kong?
Avendo invocato l’aiuto internazionale per la mia città e criticato il regime, sarei stato arrestato senza dubbio. A Hong Kong è ancora possibile parlare: bisogna però essere pronti a pagarne le conseguenze.
Foto Ansa
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