«Italia demograficamente fragile, ma c’è qualche segnale di ottimismo»

Di Piero Vietti
26 Maggio 2025
Il demografo Gian Carlo Blangiardo commenta il Rapporto Annuale dell'Istat: «Il Paese sopravvive dignitosamente in un contesto difficile. Bisogna agire per contrastare gli effetti dell'invecchiamento della popolazione»
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Immagine generata dall'intelligenza artificiale di OpenAi

La scorsa settimana l’Istat ha pubblicato il Rapporto Annuale 2024 sulla situazione del Paese. Un documento ricco di dati da cui emergono elementi di forza e di fragilità che, se compresi e affrontati nel modo giusto dalla politica, possono essere molto utili per stabilire strategie nel medio e lungo periodo. Come ovvio il Rapporto è diventato subito spunto di letture di parte: l’opposizione ha sottolineato quello che non va per dare la colpa al governo e la maggioranza ha puntato i riflettori sui numeri positivi per prendersene i meriti. Tempi ha chiesto a Gian Carlo Blangiardo, statistico, demografo ed ex presidente dell’Istat dal 2019 al 2023, un commento.

Professore, che Italia emerge dal Rapporto Annuale 2024 dell’Istat?

Un’Italia che sopravvive, e aggiungerei che sopravvive dignitosamente, in un contesto difficile da tanti punti di vista. Sono abbastanza grande, ma forse lo siamo tutti, per aver visto momenti peggiori.

Quali sono i punti di forza del Paese?

Cominciamo con l’economia, prendiamo i dati sul reddito e sul prodotto interno lordo: ci sono stati anni in cui si era sotto, magari non di tanto, ma si era sotto. Adesso galleggiamo leggermente sopra. In un momento in cui anche gli altri Paesi, compresi quelli “bravi”, faticano a fare altrettanto. Un primo elemento positivo è che l’economia, con tutti i suoi difetti, in qualche modo tiene, nonostante le guerre e, per fare un esempio, i recenti problemi di approvigionamento del gas. Un altro elemento positivo è che i lavoratori sono aumentati, checché ne dica la Cgil promuovendo i referendum del 7-8 giugno, gli occupati hanno raggiunto livelli molto alti come non si vedevano da tempo. Poi si può discutere sulla qualità di questi posti di lavoro, ma anche da quel punto di vista c’è stato un passo avanti sul tempo indeterminato, sulla partecipazione femminile, sulla disoccupazione giovanile. Sono segnali che non sono miracoli, ma inducono a un moderato ottimismo.

E le fragilità?

I salari reali che non tengono il passo con l’inflazione, certamente, sono un aspetto su cui lavorare. Io credo che la risposta ai segnali che emergono dal rapporto Istat sia legata alle trasformazioni interne. Ad esempio, la forza lavoro è invecchiata. Questo ha dei pro e dei contro, perché significa che ci sono maggiore esperienza e più competenze maturate, ma anche più difficoltà ad adattarsi alle innovazioni tecnologiche. Dobbiamo essere capaci di modulare pro e contro per ottimizzare il risultato. Questa è la sfida.

Dal Rapporto emerge con sempre più evidente chiarezza che l’inverno demografico non solo continua, ma sta peggiorando.

La popolazione sta diminuendo numericamente, ma il problema più grande è la scomparsa delle nuove generazioni. Le 370.000 nascite dell’anno scorso, dopo le 379.000 del 2023, rappresentano un record negativo. E i primi due mesi del 2025 registrano già un ulteriore calo del 6-7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024. Il rischio è di non raggiungere nemmeno quei 370.000. Scendere a 360.000 o 350.000 nuovi nati in un Paese che una volta ne registrava un milione significa un cambiamento profondo, anche in termini economici: la forza lavoro futura sarà minore.

Con quali conseguenze?

La potenzialità riproduttiva si riduce. Se oggi abbiamo 370.000 bambini, circa la metà saranno femmine, cioè potenziali future madri. Ma è diverso averne 150-160.000 rispetto a mezzo milione: ci si avvita su se stessi. Poi c’è la questione della mobilità: abbiamo una presenza straniera importante, e una presenza di ex stranieri ormai italiani – quasi due milioni – che sono un contributo significativo, ma non risolutivo. Anche tra loro le nascite calano: nel 2012 erano 80.000, oggi sono 50.000. C’è dunque un adattamento anche da parte degli stranieri a questo trend negativo delle nascite in Italia. In più, perdiamo i nostri giovani: nel 2023 circa 21.000 laureati tra i 20 e i 35 anni sono emigrati all’estero. Abbiamo investito per formarli, per poi vederli mettere a frutto altrove le competenze imparate. Non solo non attiriamo laureati stranieri, ma mandiamo i nostri negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania.

Blangiardo Istat
Lo statistico e demografo Gian Carlo Blangiardo

Siamo un paese di vecchi e per vecchi?

La popolazione è sempre più anziana, e questo fenomeno è dovuto a tre fattori: la vita si allunga, ci sono meno giovani e gli anziani attuali sono le generazioni numerose del passato. Oggi abbiamo oltre 14 milioni di persone con almeno 65 anni; tra qualche decennio saranno diciassette, diciotto, forse diciannove milioni. Dopo, forse, l’onda si ridimensionerà. Il problema principale legato a questo dato non è tanto quello delle pensioni – che potremmo riuscire a gestire – ma quello della sanità. Oggi abbiamo 850.000 persone con almeno 90 anni, che diventeranno presto due milioni. E con due milioni di ultra-novantenni, di cui quasi 100.000 centenari, il sistema sanitario sarà sotto pressione e potrebbe non reggere. Già oggi ci sono scricchiolii. Quando arriveremo a quei livelli, si porranno anche problemi etici: chi curiamo? Chi no?

Si può fare qualcosa per evitare il collasso del sistema?

Dobbiamo capire come affrontare questi cambiamenti inevitabili senza abbassare la qualità della vita. Per esempio, attivare la sanità integrativa. Chi può permetterselo lo fa già: spendiamo 40 miliardi di tasca nostra per cure sanitarie. Serve trovare modalità normative e contrattuali per integrare l’iniziativa privata col servizio sanitario nazionale.

La crisi demografica, poi, ha già colpito alcune aree interne del paese.

Molti piccoli comuni sono a rischio spopolamento, con carenze nei servizi essenziali. Dobbiamo aiutare la residenzialità decentrata, anche sfruttando il lavoro a distanza, ma servono infrastrutture per permettere a giovani, imprenditori o agricoltori di vivere lontani dai grandi centri urbani in condizioni dignitose.

Ogni anno si commentano questi numeri come se fossero una novità inattesa. Possibile che negli anni non sia stato fatto nulla per provare a invertire questa crisi?

Non è una sorpresa. I dati confermano una tendenza nota da anni. Io queste cose le dicevo già trent’anni fa, quando però prevaleva la logica del “navigare a vista”, si rimandava la soluzione dei i problemi strutturali e si cercava il consenso per le successive elezioni, non per le generazioni future. Oggi io vedo maggiore consapevolezza, anche da parte della classe politica. Il Ministero della Natalità è un bel segnale, anche se è senza portafoglio. Almeno si è cominciato a capire dove si vuole andare. Frenare la caduta richiederà tempo: è come un’auto lanciata a 200 km/h, anche se lasci l’acceleratore, l’inerzia resta.

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Un altro aspetto importante ma non nuovo è il cambiamento della famiglia.

Le persone sole, le coppie senza figli, i monogenitori: sono tutti sviluppi di una trasformazione iniziata da tempo. La rete familiare si indebolisce. I figli unici implicano l’assenza di fratelli, e quindi anche di nipoti. Questo rende il welfare familiare più fragile, proprio mentre la domanda di aiuto cresce. Un suggerimento che do, prendendo spunto dalla Francia che dà incentivi economici per chi fa il terzo figlio, è quello di incentivare almeno il secondo figlio. I giovani hanno ancora l’idea di fare due figli, ma le difficoltà che affrontano fanno sì che il rinvio di questa scelta alla fine diventi rinuncia.

C’è poi il capitolo povertà in aumento.

Più che giudicare la dimensione del fenomeno, io porrei l’attenzione sulla dinamica. L’Istat misura la povertà assoluta e l’esclusione sociale soprattutto attraverso l’analisi dei consumi. Ma mi permetto di osservare che lo strumento non è perfetto: farsi dire quanto si spende per tabacco, sale, pepe, elettricità, eccetera, è un meccanismo farraginoso. Le soglie di povertà sono stabilite a tavolino ed è curioso che solo il 6 per cento degli italiani risulti sotto soglia, mentre per gli stranieri si parla quasi del 30. È una differenza significativa, probabilmente più statistica che reale. Quello che conta però è la dinamica che questi dati segnalano: la povertà è cresciuta, soprattutto è cresciuta la distanza tra individui e famiglie. Vuol dire che le famiglie numerose, con figli, sono più colpite. E questo si ricollega di nuovo al tema demografico: avere figli espone di più al rischio di povertà.

Tra i quesiti del referendum dell’8-9 giugno ce n’è uno per dimezzare gli anni necessari a uno straniero per ottenere la cittadinanza italiana. Non è un cambiamento che potrebbe avere ricadute positive?

Io penso che dimezzare gli anni necessari per ottenere la cittadinanza non cambierebbe molto. La maggior parte di chi la ottiene ha già il permesso di lungo soggiorno. Non è tanto una questione di tempo trascorso, quanto di radicamento. Faccio un esempio: mia figlia, professore ordinario a Londra, ha ottenuto la cittadinanza inglese dopo avere frequentato corsi, superato esami di lingua e test di storia, non perché è professore. In Italia, invece, si rischia di dare la cittadinanza solo per il tempo trascorso qui. Io non sono contrario alla riforma della legge, ma serve una revisione più ampia e profonda.

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