
Famiglia e società: in crisi l’una, in crisi l’altra

Quando si parla di famiglia in termini disincantati si corre subito il rischio di essere tacciati di bieco conservatorismo, o peggio: incubatrice di pregiudizi, foriera di quel “familismo amorale” che corrode il tessuto sociale, ecco come è di solito descritta la famiglia. Eppure, come ha scritto in un bellissimo libro di qualche anno fa il sociologo Pierpaolo Donati, «la famiglia è e resta la base strutturale più essenziale della società» (La famiglia. Il genoma che fa vivere la società, Rubbettino). Si potrebbe anzi dire che senza quest’istituzione primaria, non sarebbe nemmeno immaginabile la personalità individuale che abita una società aperta. Virtù come la responsabilità, il rispetto degli altri, la fedeltà, l’autocontrollo dove si acquisiscono se non in famiglia? Essa, in sostanza, è l’istituzione in cui vengono poste le basi per quel tirocinio della libertà così cruciale per diventare individui maturi, responsabili, liberi.
Resta un fatto da registrare: la famiglia non se la passa molto bene. Le risposte possono forse essere molte e le più varie. In The Care Dilemma: Caring Enough in the Age of Sex Equality (Forum), il terzo volume di una trilogia iniziata con The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics (2017) e proseguita con Head, Hand, Heart: The Struggle for Dignity and Status in the 21st Century (2020), il giornalista britannico David Goodhart prova a fornire la sua interpretazione.
Due individui che creano una comunità
Alla base del ragionamento permane la distinzione tra due idealtipi di persone, Anywheres e Somewheres. I primi sono individui altamente istruiti e cosmopoliti che tendono a giudicare il mondo da un punto di vista universalistico: apertura, cambiamento, progresso, mobilità sono i concetti chiave per descriverne la prospettiva. I Somewheres, invece, tendono a essere poco istruiti e radicati in un posto, guardando così al mondo da una prospettiva assai diversa: identità, conservazione, attaccamento sono i concetti chiave che li descrivono. Come tutti gli idealtipi, è chiaro come la distinzione risulti a tratti eccessivamente schematica e ristretta. Eppure, essa cela un raggio di luce su alcune tendenze contemporanee. Sul tema della famiglia, ad esempio, i primi tendono a vederla quasi come un impiccio rispetto alle possibilità di carriera, mentre i secondi la considerano un fine primario della propria vita.
Per Goodhart, una grande cesura riguardo alla famiglia è quella che origina dal Sessantotto. Il periodo della “liberazione” ha dato vita ad alcuni cambiamenti profondi nella mentalità comune. In sintesi, esso ha causato quella che Christopher Lasch chiamava «l’ideologia degli impegni non vincolanti». La libertà di un individuo viene prima di tutto: essa non accetta alcun ostacolo, e pertanto non ammette vincoli alla propria volontà. Questo comporta, com’è evidente, uno sfilacciamento della logica stessa che sta alla base della famiglia: un’istituzione fatta sì da due individui, ma che unendosi creano una comunità di significato che li trascende. Un legame più forte, resistente e stabile, come ha scritto Donati, perché scaturisce dall’unione basata sull’amore, sul dono e su una matrice esistenziale comunitaria. La famiglia viene così vista, nell’ottica “liberazionista”, come un problema, anziché come la soluzione ai problemi della modernità. Ne risulta una grande scelta da compiere: fare una famiglia o avere una carriera tale che sia possibile costruire una famiglia?
Appetiti divoratori
C’è però un ulteriore questione, ed è quella della parità dei sessi. Sempre più va diffondendosi l’idea che i ruoli interni alla struttura famigliare siano interscambiabili (ma in realtà ben oltre la vita famigliare): donna e uomo, madre e padre possono darsi il cambio nelle proprie funzioni. Se tutto diventa però uguale, viene meno il senso stesso di un ruolo definito. La famiglia fornisce infatti, o dovrebbe fornire, quella stabilità, quella sicurezza che invece vengono proprio messi a repentaglio da un’eccessiva indistinzione egualitaria. La ricaduta principale è la formazione di futuri adulti fragili emotivamente e psicologicamente, i quali pensano che libertà significa fare tutto ciò che si vuole. Come ammoniva però Edmund Burke, se non si mette un freno ai propri appetiti – fin da bambini, aggiungiamo noi – il pericolo è che si venga col tempo da essi divorati, con grave nocumento per se stessi ma anche per gli altri.
La famiglia serve quindi proprio a questo: a formare la personalità di un individuo che oggi è un bambino, ma che domani sarà un adulto a cui sono richieste scelte da compiere in autonomia e responsabilità. Senza questa comunità di base, ha scritto tempo fa Sergio Belardinelli in un libro importante (La comunità liberale. La libertà, il bene comune e la religione nelle società complesse), è impensabile che una società aperta possa davvero sussistere. Il ruolo della famiglia, in tal caso, verrà assorbito soprattutto dal dispositivo statale, creando i presupposti per una società paradossalmente – vista la logica “liberazionista” da cui muove – più irreggimentata e meno libera.

The Care Dilemma: Caring Enough in the Age of Sex Equality
David Goodhart
256 pp
30 euro
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