
L’arma segreta di Netanyahu

Benjamin Netanyahu, il premier che ha governato per più anni nella storia di Israele, sa di essere accerchiato. E reagisce nel modo che meglio conosce: attaccando e rovesciando le accuse sui suoi nemici e avversari.
Bibi (in Israele tutti lo chiamano così, amici e nemici, e spesso gli uni si sono confusi con gli altri) è accerchiato geograficamente dalle fazioni palestinesi libanesi, delle milizie yemenite, dei terroristi di Hamas e della Jihad islamica, del Partito di Dio, l’Hezbollah sciita, gli Houthi yemeniti. Sono tutti guidati dall‘Iran, il vero e più minaccioso pericolo per l’esistenza dello Stato ebraico, sempre più vicino – benché lo neghi – alla costruzione dell’arma nucleare. Anche gli Stati Uniti ormai lo criticano apertamente. Ieri il presidente Joe Biden lo ha accusato di «non fare abbastanza» per liberare gli ostaggi nelle grinfie dei terroristi.
Ad aumentare politicamente l’accerchiamento intorno al primo ministro ci pensa l’opposizione israeliana liberale e laburista, che lo accusa di non aver saputo prevenire la strage del 7 ottobre e di aver voluto continuare la guerra. Anzi, le guerre: nella Striscia, nei territori, in Libano. E di aver insistito con i bombardamenti e gli omicidi “mirati” su Siria, Iraq e Iran senza riuscire a concludere l’accordo per la liberazione degli ostaggi catturati da Hamas.
La sorte dei sei ostaggi
Non solo loro. Bibi è accerchiato dalle famiglie degli ostaggi e dai loro sostenitori che da dieci mesi, in centinaia di migliaia, scendono in piazza. Hanno invaso, sia pure di pochi metri, il confine con Gaza, gridando nei megafoni il loro amore per i parenti e per gli amici rinchiusi nei tunnel di Hamas (nell’imbarazzo dei soldati che hanno dovuto fermarli cercando di non essere ripresi dalle telecamere: ma tutto è documentato in questa guerra). I manifestanti hanno bloccato le autostrade, i treni e gli aerei del paese, sostenuti da una consistente parte degli israeliani che non sopportano più una guerra che impegna trecentomila militari e riservisti civili e ha costretto settantamila abitanti del Nord della Galilea ad abbandonare casa e lavoro.
Certo, «la colpa è dei terroristi Hezbollah che fanno piovere ogni giorno centinaia di razzi, ma ad un accordo bisognerà pur arrivare, e l’accordo passa per Gaza», ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant, che chiede la tregua. «Non sarà un 7 ottobre di lutto nazionale, commemorato da israeliani stretti nell’unico dolore. L’orrore è simile, ma non uguale», dice Ygal, cugino di un ostaggio di cui nulla sa. C’è chi spera ancora, chi piange su una tomba, chi vuole vendetta. Per l’ex premier Yair Lapid, Netanyahu ha preferito la guerra ad oltranza alla trattativa. Bibi è accusato anche dall’esercito. “Abbiamo una strategia militare, ma non politica”, dicono apertamente i generali che siedono nel gabinetto di Guerra.
Sui giornali israeliani echeggiano le notizie delle manifestazioni pro palestinesi in Europa e in America, i timori per il rinascente antisemitismo mescolato o semi edulcorato in antisionismo, e girano virali sui social petizioni che chiedono le dimissioni del governo. Dopo l’uccisione dei sei ostaggi trovati morti in un tunnel, ammazzati mentre l’esercito era sul punto di fare irruzione nella prigione sotterranea, è stato proclamato uno sciopero generale contro il governo.

I palestinesi? Non esistono
Netanyahu deve fare i conti con gli ultra sionisti che chiedono interventi militari ancora più duri perché spazzi via Hamas e annetta nuovi territori da dare ai coloni e vogliono altri 1.750 alloggi in Cisgiordania. Sessanta ettari di terreno edificabile a Nord di Gerusalemme sono già stati approvati: «Una vittoria – dice il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich -, un momento storico cui seguiranno altre espansioni per fermare la costruzione di uno Stato palestinese». Parole che suonano come un monito diretto a Bibi e ai ministri che vogliono ancora la soluzione dei due stati per due popoli approvata dalla comunità internazionale.
Non basta: sul fronte parallelo della destra religiosa, Bibi è attaccato dagli ultra ortodossi che non vogliono fare il servizio militare. «Il nostro compito è studiare le scritture nelle Yeshiva, le scuole talmudiche», dice Tsafir, studente di origine americana, venuto in Israele dieci anni fa. Della guerra sembra importargli poco, dei palestinesi che abitano a poche centinaia di metri dalla sua casa di Geula, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, importa ancor meno. «Palestinian who?», palestinese chi? mi risponde, e sembra ignorare i 1.200 ebrei trucidati a Gaza, i prigionieri di Hamas, i 40 mila gazawi morti nei combattimenti, i 700 soldati israeliani uccisi in dieci mesi, e persino le manifestazione e le proteste in Israele, l’esercito impegnato non solo a Gaza ma ora sempre più in Cisgiordania e il pericolo che viene dal Nord. Palestinian who? Non esistono.
Camminate sulla spianata delle moschee
L’attacco a Netanyahu diventa così trasversale all’interno di tutta la leadership israeliana: Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, il servizio segreto interno, ha apertamente accusato il ministro della sicurezza, l’estremista Itamar Ben-Gvir di mettere e rischio la vita dei cittadini di Gerusalemme con le sue camminate sulla spianata delle moschee, seguito da migliaia di sostenitori, pregando in ebraico e violando lo status quo che regola i luoghi religiosi. Provocazioni che ogni sabato possono innescare nuove guerriglie all’interno della città vecchia.
Il ministro Smotrich sostiene apertamente i coloni che negli ultimi mesi hanno attaccato i villaggi palestinesi incendiando e provocando scontri che hanno causato nuove vittime. Molti di loro vengono da insediamenti illegali anche per Israele, ma spesso la polizia di frontiera non è intervenuta per fermarli.

Avversari divisi
L’accerchiamento del premier sembra totale, ma Bibi sa che le divisioni fra i suoi avversari sono più forti dell’odio nei suoi confronti. L’opposizione non sa darsi un leader unico, i palestinesi non riescono nemmeno a convocare le elezioni per darsi un presidente che sostituisca l’ormai 88 anni Abu Mazen e possa trattare con Israele. Netanyahu ricorda che dieci mesi di guerra non hanno portato all’annientamento di Hamas, ma hanno consentito ad Israele di uccidere i leader più prestigiosi delle formazioni che comandano a Gaza, nel Sud del Libano e persino in Iran, senza che le rappresaglie dei nemici dello Stato ebraico ottenessero effetti reali.
Ci sono ancora oltre cento ostaggi, è vero. Ma Netanyahu è convinto che l’unico modo per trattare la loro liberazione non sia una tregua (che rafforzerebbe Hamas), ma l’esatto contrario: l’attacco. Il primo ministro conta sul fatto che i paesi arabi nemici dell’Iran sono più a parole che nei fatti sostenitori della causa palestinese. Egitto, Arabia, Emirati, Siria temono molto più i Fratelli musulmani di quanto temano Israele. E l’Iran è considerato un pericolo per tutti. Gli Stati Uniti cercano una mediazione, anche per impedire che nelle trattative si inseriscano Cina e Russia.
La regola di Hama
Il premier israeliano è accerchiato, ma non isolato e gioca le sue carte su diversi tavoli. Sa rovesciare la strategia di Hamas che vuole esasperare l’opinione pubblica israeliana. Sa che anche a Gaza e Cisgiordania i servizi segreti si sono riorganizzati e questo ha consentito gli ultimi micidiali raid contro i leader jihadisti.
Netanyahu conta sulla caparbia forza di resistenza israeliana. Cinquant’anni fa, quando il presidente siriano Assad sterminò i curdi ribelli ad Hama, furono 40 mila i morti: si parlò di “regole di Hama”, massacri e città rase al suolo per eliminare ogni retaggio di opposizione. L’Occidente rimase indifferente. Hama, Hamas, Gaza: le regole della guerra combattuta tra e in mezzo ai civili hanno una macabra assonanza.
Resta una considerazione e un monito per tutti: nonostante le polemiche interne ed esterne, nonostante le migliaia e migliaia di morti, Israele, almeno al suo interno, resta un paese dove si discute e si scende in piazza, anche e soprattutto contro il governo, dove i giornali pubblicano i verbali del consiglio di guerra, dove ci sono più canali televisivi d’opposizione che di governo. Sarebbe una sconfitta per tutto il mondo libero se il risultato di questa ultima guerra fosse la sconfitta della democrazia israeliana. Non l’annullamento di Israele ma della sua civiltà. Lo stato ebraico combatte per la sua esistenza e la sua esistenza ha radice nella libertà e nella democrazia. È questa la responsabilità storica dello Stato ebraico. “La sicurezza senza giustizia, democrazia e libertà non ha senso”, dicono le centinaia di migliaia di israeliani che scendono in piazza. Combattono i terroristi, ma non dimenticano i loro diritti di cittadini.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!