Formidabile quell’anno

Di Manes Enzo
17 Gennaio 2008
Tutte le volte che siamo andati (sportivamente) in piazza nel 1968 col tricolore. Adorni, Dibiasi, Benvenuti, gli Europei di calcio e il mitico Agostini

Compagni, tranquilli, c’è un ’68 da salvare. Bello, struggente, irripetibile. Tutto italiano. Un vero romanzo popolare privo di barricate e slogan, scolpito invece da imprese sportive inanellate dalla nostra meglio gioventù. Pagine semplici per cuori semplici.
La comunità italiana di Brooklyn si era procurata per tempo il prezioso tagliando e si stava avviando gonfia di speranza all’appuntamento con la storia. Al nuovo Madison Square Garden di New York il 4 marzo 1968 il cartellone pugilistico proponeva la “bella” tra il detentore della corona dei pesi medi, l’americano Emile Griffith e l’italiano Nino Benvenuti. In Italia il match si consumava a notte fonda, però l’orario non spaventò il paese che stava sintonizzato con quella arena. Partirono gli inni. «Al momento dell’inno nazionale le lacrime mi uscirono dall’anima e le lasciai scorrere senza pudore. La felicità più grande si esprime piangendo», scriverà nella sua autobiografia il boxeur nato a Isola d’Istria ora territorio sloveno. I due si conoscevano bene e infatti i guantoni faticavano a colpire il bersaglio. Però Benvenuti, pugile baciato dal dono dell’eleganza, man mano si faceva preferire: i cartellini alla fine dei quindici lunghissimi round furono decisamente dalla sua parte. L’italiano tornava campione del mondo. A Brooklyn esplose la festa, pure nella penisola si scese per le strade col tricolore, in una stagione dove il colore prevalente sulle bandiere era il rosso. Pier Paolo Pasolini confessò di aver tifato per Griffith prima di tutto in quanto nero e poi perché aveva saputo che il volto di Benvenuti campeggiava nelle sedi del Movimento sociale italiano. Lo scrittore Mario Arpino liquidò come imbevuto di ideologia quel modo di ragionare. Benvenuti, tirando avanti per la sua strada, conservò la corona fino al 1970 quando bussò al suo titolo senza chiedere il permesso un argentino dal pugno pesantissimo e dalla stazza scultorea, Carlos Monzon.
Tre mesi dopo la notte del Madison, pure il pallone aveva il suo evento da celebrare. L’Italia ospitava il campionato europeo. La nazionale pareva di buon livello, però qualche scetticismo nei bar si respirava ancora per via della terribile figuraccia di due anni prima in Inghilterra quando la Corea del Nord ci cacciò in malo modo dal torneo per il gol di un dentista. Stavolta le cose andarono per il verso giusto. In finale gli azzurri trovarono una bella Jugoslavia. La prima partita finì in pareggio: 1 a 1. Vantaggio loro e risposta di Domenghini, ala veloce, segaligna e dotata di una buona legnata. Ma nella ripetizione del 10 giugno, nel catino dell’Olimpico di Roma, giocammo una gara perfetta: Gigi Riva interruppe l’equilibrio dopo pochi minuti e al 31′ del primo tempo una meraviglia di Pietro Anastasi, cioè giravolta repentina al volo di destro ad annichilire il portiere slavo, chiudeva il conto. Così si tornava di nuovo in piazza senza l’ordine dei sindacati. Per la cronaca quella fu l’unica volta che l’Italia fece suo il titolo europeo.
Nel 1968 si passò un’estate normale, sulle spiagge il motivetto “Luglio col bene che ti voglio” contagiava un po’ tutti e i tifosi di calcio sognavano col calciomercato sprofondati nelle loro rassegnate sdraio. Poi il risveglio agonistico: il primo settembre a Imola il campionato del mondo di ciclismo su strada. C’erano tutti i migliori in corsa. Da tenere d’occhio soprattutto la pattuglia belga. Circuito interessante, quello. Nervoso e con qualche insidia. Vittorio Adorni, atleta di razza che nel 1965 aveva vinto il Giro d’Italia, prese la decisione di sferrare un attacco a 90 chilometri dal traguardo. Troppo lontano mugugnavano gli appassionati. Lui si sentiva la gamba buona e la pedivella lo seguiva che era un piacere. Macinava l’asfalto con potenza e lucidità mentre dietro, ben sorvegliato dalla squadra, gli avversari non riuscivano a reagire. Arrivò alla meta con quasi dieci minuti di vantaggio, un tempo abissale. Completava la giornata il terzo posto di Michele Dancelli.

Faceva ciuff
Dunque, riepilogando: boxe, calcio e ciclismo. Ma la cuccagna non era ancora finita. Il 15 settembre il centauro Giacomo Agostini vinceva il Gp delle Nazioni a Monza diventando il numero uno al mondo sia nella classe 350 e sia nella 500. Dominio assoluto “domando” la mitica Mv Agusta: in entrambe le classi, il pilota si aggiudicava tutte le gare della stagione. Nasceva il mito Agostini: 15 titoli mondiali conquistati (8 con la 500) e 122 gran premi vinti. Roba da far arrossire anche Valentino Rossi.
Ora l’attenzione del mondo si spostava in Messico. Lì andavano in scena le Olimpiadi. La politica barricadera riusciva a farsi largo con vampate di scontri a Città del Messico. L’exploit mediatico arrivò durante la premiazione dei 200 metri di atletica leggera: Tommie Jet Smith e John Carlos, al momento dell’inno americano, abbassarono il capo e levarono verso il cielo i pugni fasciati in un guanto nero in segno di protesta contro le ingiustizie verso i neri. Su quel fatto si disse di tutto. Fiumi di parole, molte impregnate di retorica. La sinistra internazionalista aveva trovato la sua soddisfazione. Le persone normali continuavano a preferire le gare, ebbrezza per il beau geste. L’Italia si scoprì appassionata di tuffi grazie al giovane Klaus Dibiasi, altoatesino di scarsissime parole e infinito talento. Dalla piattaforma dei 10 metri si lanciava con uno stile vicino alla perfezione, volteggiava armonicamente ed entrava nell’acqua senza fare spruzzi. Il suo rivale Claudio Cagnotto, di fronte a tale meraviglia, ebbe a dire: «Klaus ha un’entrata in acqua silenziosa e frusciante. Faceva ciuff e dominava il mondo». L’azzurro vinse la medaglia d’oro il 26 ottobre e si ripetè anche nelle due successive olimpiadi, a Monaco e a Montreal.
Con le meraviglie di Dibiasi poteva chiudersi in gloria quell’incredibile ’68. Ricco di coppe e medaglie. Di emozioni, lacrime e salti di gioia. L’Italia si destava con l’inno di Mameli e quasi lo imparava a memoria. Senza provare vergogna. Formidabile quell’anno, compagni.

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