Ezio Mauro

Di Emanuele Boffi
25 Ottobre 2007
«Il Pd deve badare a sé, il governo a sé. Berlusconi fondi il partito conservatore. La campana suona per gli "ereditieri" che usano Grillo». Il nostro miglior avversario racconta «gli errori del mio giornale su Mani Pulite e i miei sull'aborto»

Si vede una donna prona, allungata sul prato. è scalza. Tiene le mani incrociate davanti al volto. Davanti a lei la lapide, la bandiera stelle e strisce, i fiori bianchi. James John Regan, Stg Us Army. Forse piange, forse prega. è una donna americana. Di fianco alla sua solitudine la teoria delle altre lapidi. Joseph J Ellis. Manuel Antonio Ruiz. Carl W Johnson. E così fino alla fine dell’orizzonte della collina degli eroi. «La fotografia è del nostro art director, Angelo Rinaldi. Abbiamo notato che nel cimitero di Arlington sono sempre più numerose le tombe di ragazzi dell’Ottanta, quelli caduti nei conflitti in Afghanistan e Iraq. Così ho telefonato al nostro inviato: lascia perdere il pezzo sull’amministrazione Bush, vai a farti un giro al cimitero». Ezio Mauro sfoglia R2, il giornale nel giornale che da qualche tempo il lettore di Repubblica trova dopo aver sfogliato le prime pagine, quelle del racconto delle giornata, quelle “classiche” diciamo. «Ci copieranno anche questa idea prima o poi – sorride -, ci hanno copiato tutto, copieranno anche questo». Mauro è soddisfatto di questa sua creatura, e ne ha ben donde. R2 è – oggettivamente – un manufatto d’idee di pregevole fattura. Tanto bella da sfogliare che risulta quasi un peccato leggerla. Come ogni buon artigiano, anche Mauro, da professionista delle parole, trova la sua maggior soddisfazione nel lavoro ben fatto e morbido al tatto, anche se è carta, anche se domani occorrerà un’altra idea e un’altra foto struggente e suggestiva. «Il giornale è come una cattedrale che si edifica ogni giorno. Ogni giorno occorre costruire qualcosa che assomigli alla giornata appena trascorsa. Chi entra deve avere un’idea complessiva di quello che è successo. I quotidiani esistono ancora pur in presenza di internet, tv e radio perché essi non sono flusso, ma selezione di mattoni che, accostati l’uno all’altro, restituiscono il senso di quello che è accaduto. Per trent’anni la politica è stato il muro maestro di questa cattedrale. Oggi non lo è più. Oggi la politica il suo spazio sul quotidiano se lo deve guadagnare. Se lo deve, laicamente, guadagnare».
Ultimamente se lo è guadagnato. Ci sono state le primarie del Partito democratico. Tre milioni e trecentomila persone si sono messe in coda. Certamente un successo, sicuramente un evento significativo.
Il voto delle primarie ha un senso solo se interpretato come desiderio di cambiamento. La gente ha votato perché non ne può più, perché siamo arrivati al limite in termini di lottizzazione di ogni spazio pubblico, in termini di privilegi – uso una parola che non mi piace – un po’ “castali”, in termini di mancanza di produttività della macchina politica. Eppure la gente si è messa in fila e ha espresso la sua preferenza. Si è aperto uno spazio di partecipazione e l’uomo comune se lo è preso. Forse anche pensando che sarebbe stato inutile, forse temendo di ritrovarsi di nuovo a vivere un’altra illusione, però noi dobbiamo registrare che se lo è preso. Non ha disertato. Ha partecipato. Quindi c’è una disponibilità “a starci”. Questo è un fatto di enorme importanza, non solo per il Pd, ma per tutta la politica italiana.
Ora che succederà? In un editoriale ha scritto che l’unico errore che Veltroni può fare è non usare la forza che si è sprigionata con le primarie. Cito: «Capendo, prima di tutto, che è una forza di cambiamento, per il cambiamento. Dunque, continuando a cambiare, subito, a costo di strappare, come sarà inevitabile».
Quel che bisogna fare non è un’ipotesi, è un obbligo: bisogna cambiare. Cambiare, cambiare subito, a partire da questo partito. Lo strappo porterà a problemi col governo? Un partito deve badare a sé e un governo deve badare a sé. Il Pd nasce per innovare, non può fare altro. Tocca al governo adeguarsi. Lo dico con molta semplicità, non credo che qualcuno possa intendere queste mie parole come una trappola.
Trappola?
Se domani Prodi annuncia che porta l’esecutivo a 18 persone, di cui 9 donne, e che dimezza col machete il numero dei sottosegretari ad esclusivo danno del Pd, sarebbe interessante, no? Sfiderebbe il Pd sul suo campo, che è quello dell’innovazione. Certo, si corre qualche rischio, ma almeno si comincia. è la prima volta che la novità politica si sposta dal campo del centrodestra a quello del centrosinistra. Berlusconi è un innovatore, Forza Italia è stata una novità. è nata in tempi brevissimi, anche se non così brevi come Berlusconi la dà a intendere. Ricordo una cena con lui, era prima della nascita di Forza Italia e mi confidò che sognava di fondare un partito reaganiano. Mi disse: “La gente mi voterebbe, avrei più del 50 per cento”. Pensai di trovarmi di fronte a uno che sognava di diventare il centravanti della Nazionale. Invece aveva ragione, quel che ha fatto ha del miracoloso. Tuttavia oggi è sciocco non ammettere che anche il Pd, come Forza Italia, è una novità, anche se tra i due eventi c’è una differenza: il primo è nato nella solitudine elettronica di un signore che ha consegnato una cassetta a uno studio televisivo. Il secondo con una fila di tre milioni di persone.
Le primarie del Pd arrivano dopo mesi di antipolitica e grillismo. Anche su questo tema ha scritto un editoriale che terminava così: «Bisognerebbe che l’establishment italiano evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando la supplenza e sognando l’eredità. Meglio chiedersi per chi suona la campana».
Mi rifiuto di credere che il vaffanculo possa rappresentare la massima espressione civile dell’Italia nel 2007. Sarebbe come ammettere che ciò che siamo stati, ciò che siamo diventati, ciò che siamo, cioè tutto ciò che è convivenza pubblica, possa essere rappresentato solo da un gestaccio, da un urlo. è un cortocircuito assoluto dove non c’è più alcuno spazio per un prima e un dopo, ma solo per una distruzione nichilista. Ho lavorato tre anni in Unione Sovietica. Credo che nel chiuso delle loro stanze molte persone abbiano mandato i loro vaffa al regime. In quel caso l’insulto è l’unica risposta, ancorché sterile, perché ti è precluso ogni spazio e diritto. Sei suddito, ma non cittadino. Ma oggi, in Italia, non è così. Da cittadino, puoi essere insoddisfatto della qualità della tua democrazia, ma hai gli strumenti per esprimere il tuo disagio e per poter cambiare.
Il “vaffa” non è uno strumento adeguato?
No. Distruggere i partiti, insultare tutti è come dire che è impossibile cambiare. Invece è possibile, anche in una democrazia malconcia. Perciò leggo nelle primarie un evento positivo. C’è una riserva di speranza.
Una democrazia malconcia che però ha portato fortuna ad alcuni dei suoi ritrattisti. Penso al libro La casta.
Conosco Gianantonio Stella e Sergio Rizzo. Il libro è nato da una costanza di lavoro. è un buon lavoro. Le strumentalizzazioni che se ne fanno esulano dall’orizzonte di chi lo ha scritto. Poi ci sono gli “ereditieri”, coloro che stanno sul bordo e attendono di essere scelti anziché scegliere. Allora preferisco confrontarmi con uno con cui non sono d’accordo, ma che si sporca le mani. Che si prende i voti e i cazzotti.
è per gli ereditieri che «suona la campana»?
Quando la crisi di rappresentanza è così vasta e quando il senso – non di declino, che si misura su parametri economici – ma di decadenza è così vasto, allora non è accettabile che un pezzo di establishment se ne stia sugli spalti a vedere deperire la politica sperando di poterla sostituire. Come se il paese potesse ancora sopportare una seconda supplenza dopo quindici anni.
A proposito di supplenza. Recentemente Eugenio Scalfari, commentando l’apparizione dei magistrati Clementina Forleo e Luigi De Magistris alla puntata di Annozero, ha fatto riferimento ad un altro episodio di cortocircuito mediatico-giudiziario. Quando, tre lustri or sono, il pool di Mani Pulite si presentò in tv per attaccare il decreto Biondi. Ha scritto Scalfari: «Quasi tutti i giornali li appoggiarono, anche il nostro allora da me diretto. Probabilmente fu un errore». Anni fa, a Tempi, il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, rilasciò una bella intervista in cui rileggeva con onesta autocritica il lavoro della stampa in quegli anni. Alla luce del ripresentarsi oggi, pur in una situazione differente e con modalità lontane, di un nuovo scontro tra magistratura e politica, pensa che anche Repubblica debba fare autocritica?
Allora la questione della legalità scoppiò con una violenza tale che si capì che il sistema delle tangenti aveva soffocato il mondo della politica e dell’imprenditoria. Era una cappa che saltava. è vero comunque che furono fatti degli errori: i magistrati furono trasformati dall’opinione pubblica e, in parte, dai giornali in cavalieri bianchi senza macchia, fu affidato loro un compito improprio. Oggi la questione della legalità è una questione che lo Stato democratico deve risolvere con gli strumenti previsti. I magistrati non devono esondare. Il rispetto delle regole vale per tutti, anche per loro. Non è che la magistratura, poiché opera contro l’illegalità, può non rispettare le regole. Forse nel ’92 a questo aspetto si poneva meno attenzione. Ma l’errore di quegli anni fu attribuire alla magistratura un ruolo improprio. A capotavola può sedere solo la politica perché è l’unica autorizzata a disciplinare gli interessi particolari in nome di un interesse generale. Questo vale anche per i poteri forti.
Cosa intende per “poteri forti”?
Intendo solo che, in alcuni momenti, il potere economico e finanziario ha avuto un peso considerevole. Lo scrivevo anche quando ero direttore della Stampa riferendomi alla Fiat. A capotavola può stare solo la politica, anche se è cattiva. Perché la politica possiamo cambiarla.
Ha detto all’Espresso che ha nel cassetto un editoriale che intitolerebbe così: «La politica non fa la battaglia delle idee. Ecco perché non riesce a vincere».
Sì, e vale per la destra e per la sinistra. Vedo il Cavaliere e penso: la vera immortalità Berlusconi non deve cercarla in Scapagnini, ma in una moderna cultura occidentale europea di stampo conservatore. La destra in Italia è stata fascista o dorotea, due negazioni di un vero partito conservatore. Berlusconi ha fondato un partito – ed è una gran cosa – ma dovrebbe avere l’ardire di lasciare al paese una moderna cultura conservatrice. Lo stesso vale per la sinistra che ora, con un ritardo abissale, tragico e colpevole, almeno ha dato vita a qualcosa di nuovo. Ha posto una dogana. Non so se oggi i leader del centrosinistra sono consapevoli di tutto ciò. Non so se hanno la capacità di guardare con rispetto alla loro storia, se sono consapevoli di essere gli eredi di un processo storico importante. Se lo fossero saprebbero subordinare le proprie istanze in nome di un orizzonte comune. Oggi non ci sono più bandiere e nemmeno quel vento che le bandiere fa muovere, cioè non c’è più una cultura di riferimento. Un quotidiano oggi può, per quel che gli compete, agitare dei temi che possono influenzare e, in certi casi, predeterminare, le scelte politiche. Una volta erano i partiti stessi a fare cultura, erano essi stessi i portatori di senso. Oggi non più. Non che un quotidiano debba fare politica, sia chiaro. Però un giornale può fornire al lettore e al politico delle chiavi di lettura che egli può poi utilizzare per capire e decidere. Questo, ad esempio, la Chiesa cattolica lo ha compreso bene, eleggendo al soglio pontificio non un papa pastore, ma un papa teologo e filosofo.
Non accusa la Chiesa di ingerenza?
Per anni abbiamo ritenuto che la religione fosse da confinare nell’ambito della scelta individuale. E, paradosso, la Chiesa aveva accettato tale confine. Ci siamo sbagliati. Da quando hanno compreso di essere minoranza, e grazie anche al pontificato di Giovanni Paolo II, i cattolici sono diventati più vitali e la religione è ritornata prepotentemente nel dibattito pubblico. La parola della Chiesa è quindi una parola che mi interpella, che mi fa riflettere, che mi scuote. Che la Chiesa dica le sue verità è un arricchimento anche per chi è laico, tuttavia non deve pretendere che la sua verità sia imposta anche a me.
Perché questo timore?
Perché in democrazia esistono minoranze e maggioranze, non esistono verità da imporre. L’unica religione che in democrazia può essere accettata è la democrazia stessa. Perché la democrazia si pone come piattaforma che garantisce a tutte le verità di poter essere espresse. Non esiste la Verità con la maiuscola, ma solo tante verità.
Eludendo per un attimo il piano politico e senza pretendere di esaurire un discorso complesso, non crede però che la verità cui richiama la Chiesa sia una verità che interpella innanzitutto la ragione, prima ancora che la fede? Secondo, e detto in maniera un po’ grezza: se ci sono tante verità – non la Verità, ma almeno la possibilità che ne esista una – si pone un problema drammatico: l’orientamento tra tante opinioni, tra tante verità plurali. Che fare?
Certo, se il Papa si rivolge alla mia ragione, non ho alcuna difficoltà a confrontarmi. Penso a certi temi etici. Prendiamo l’aborto. Da giovane firmai con qualche leggerezza un manifesto per una legge sull’aborto. Oggi firmerei di nuovo, credo, ma non con quella leggerezza giovanile. Così come sull’eutanasia conservo qualche dubbio. Però, insisto: non può esistere una legge del creatore da imporre alle creature. La legge per le creature si deve formare nel libero dibattito, secondo le regole della maggioranza e della minoranza.
Gianni Baget Bozzo dice che con la discesa in campo di Veltroni ci libereremo di Prodi e del dossettismo.
Se, dopo questa fase, Prodi avrà l’ambizione di ritagliarsi il ruolo di fondatore – è l’ambizione massima cui può aspirare – allora si capirà che questa nuova fase, che sarà guidata da Veltroni e da persone generazionalmente più giovani, avrà avuto la sua origine nel pensiero di un cattolico democratico. Forse l’unico che poteva unire le due grandi tradizioni del Pci e dei popolari.

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