
In preda alla noia
Un dito nel culo sulla prima pagina del Corriere della Sera probabilmente non si era visto mai. Deve succedere qualcosa di ben grave perché il quotidiano di via Solferino faccia spazio a un linguaggio simile. E infatti “Addio ai padri”, l’articolo di Ernesto Galli Della Loggia che riporta l’espressione (presa peraltro di peso da un video in cui uno studente la usa davanti a una smarrita professoressa), mette a tema il fatto più grave e drammatico che possa capitare in un popolo: «Una frattura immensa che nella nostra società si è aperta fra le generazioni. Non è più possibile evocare la categoria del “bullismo”, rifugiarsi nella dimensione del patologico». Finalmente qualcuno ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, senza nascondersi dietro la retorica fioroniana del “caso isolato” e del “l’albero che cade fa più rumore della foresta che cresce”.
«Sì – ribadisce a Tempi lo stesso Galli Della Loggia – viviamo in una società che non è più capace di trasmettere la sua cultura, perché non è più capace di credere nel proprio passato. In un mondo dominato dall’innovazione tecnologica, è difficile credere che un mondo in cui l’innovazione tecnologica era assente possa essere stato un mondo buono, un mondo da cui c’è qualche cosa da imparare. Lo scintillio dell’innovazione tecnologica distrugge il prestigio del passato. E tutte le chiacchiere sulla memoria, sul valore e l’importanza della memoria, sono solo il segno che la memoria non c’è. Di conseguenza la scuola è decapitata, perché il suo compito è la trasmissione della memoria. Non è la generazione di un puro saper fare, ma la formazione di una persona in tutte le sue dimensioni. La società dovrebbe impegnarsi in un gigantesco sforzo per ricominciare a trasmettere la tradizione. O se non piace la parola tradizione diciamo la memoria, il passato». E perché mai la parola “tradizione” dovrebbe non piacere? «È che di solito viene associata a una concezione politica reazionaria, che volta le spalle al presente e al futuro. Invece secondo me è proprio l’attenzione posta in modo esclusivo sul presente e sul futuro a essere reazionaria e antiumanistica. Perché disegna uno scenario in cui gli uomini sono sempre di più “agiti” da fattori esterni, in cui viene meno il ruolo della libertà umana; e quindi viene meno la tradizione umanistica dell’Occidente con tutti i suoi valori, inclusi i valori religiosi».
Il test della capacità comunicativa
«Galli Della Loggia ha ragione, siamo di fronte a un’emergenza educativa gravissima», conferma Umberto Galimberti, ordinario a Venezia di Filosofia della storia, attento commentatore dalle colonne di Repubblica di quel che si muove nel mondo giovanile. «La perdita di autorità dei padri e degli insegnanti è senz’altro una causa, ma anche la conseguenza di una crisi in cui si possono individuare tre fattori. Il primo è la perdita della speranza. I giovani non vedono il futuro come una possibilità ma come una minaccia. E non trovano più un nesso tra quello che fanno a scuola e quel che occorre per affrontare questo futuro». Il secondo fattore di crisi per Galimberti «è la totale assenza dalla scuola dell’aspetto emotivo. Manca totalmente un’educazione dei sentimenti. La scuola si limita a istruire e non a educare; ma non c’è trasmissione di contenuti senza coinvolgimento emotivo. Chiunque sia andato a scuola sa che quel che ha imparato l’ha imparato da professori che lo hanno affascinato. Se gli insegnanti sono anime morte, o pallide, non si curano di entrare in rapporto con la sfera emotiva così importante per un adolescente, i contenuti del sapere restano insignificanti». Un vuoto, questo, che apre un problema sulla scuola come istituzione, sui criteri di scelta e valutazione degli insegnanti. «Certo. In America esistono test della personalità solidi, che permettono di valutare le capacità di comunicazione, di fascinazione. Se un insegnante non è adatto da questo punto di vista non può fare l’insegnante, come una persona di un metro e cinquanta non può fare il corazziere. Senza che nessuno si offenda. Punto». Probabilmente allora, se non per il ministero più statalista d’Italia (l’Istruzione), almeno per Galimberti il progetto di legge presentato dalla Regione Lombardia, che prevede l’assunzione e la valutazione diretta degli insegnanti da parte delle singole scuole, può essere un passo in questa direzione. «Sì, è una strada possibile. Poi occorrerà fissare dei criteri perché un preside non possa licenziare un insegnante solo perché gli è antipatico. Però il principio di abolire i ruoli e di porre gli insegnanti a misura della loro capacità e della loro professionalità è senz’altro da introdurre».
Dicevamo i tre fattori della crisi. «Il terzo guaio è che la nostra scuola coltiva solo l’intelligenza convergente, “a domanda rispondo”: il professore spiega, lo studente ripete. Una noia terribile, nessuna possibilità di sviluppare l’intelligenza creativa, basata sull’idea che forse i problemi non hanno una sola soluzione, che possono essere sempre ribaltati. E la situazione è peggiorata dall’introduzione dell’informatica, che sviluppa solo l’intelligenza binaria: un disastro dal punto di vista educativo, perché il futuro non è di chi risponde alla logica delle macchine, è di chi sa inventare risposte inesplorate». In un recente articolo Galimberti ha citato Howard Gardner, secondo cui alle elementari si forma l'”intelligenza disciplinata”, con chiari messaggi che consentano al bambino di acquisire i codici del mondo in cui vive, mentre l'”intelligenza creativa” sarebbe un’esclusiva della scuola superiore. Oggi però – viene da osservare – sembra accadere il contrario: alle elementari si chiede ai bambini di essere “spontanei”, “creativi”. «Appunto. Alle elementari ci vuole disciplina e non creatività: i bambini devono acquisire un livello di conoscenza e dopo saranno creativi. Invece si fa il contrario, li si fa creativi da piccoli e disciplinati da grandi; ma da grandi la disciplina non funziona più se non
l’hai imparata da piccolo. E la disciplina funziona solo se è legata al fascino».
Un ascolto senza contenuti
Come Galli Della Loggia, anche Giovanni Belardelli è convinto che oggi «i giovani appartengono all’universo mentale tecnologico». Belardelli, docente di Storia del pensiero politico a Perugia, intervenuto di recente sempre sul Corriere in difesa dei ragazzi dello “Spedalieri” di Catania e dei loro interrogativi, racconta a Tempi che «tra me e mia figlia c’è una faglia generazionale, quasi come quelle di cui parla Huntington, una sorta di “scontro di civiltà” generazionale. Questo dato, che è di tutta la civiltà occidentale, assume però nella scuola italiana un connotato particolare, dovuto al crollo del ceto degli insegnanti. Ai miei tempi gli insegnanti erano conservatori. Anche quelli di sinistra: era evidente che il loro compito era trasmettere qualcosa di buono, che valeva la pena conservare. Oggi c’è in cattedra sostanzialmente la generazione uscita dal Sessantotto, la cui bandiera è il dialogoaperturaintermulticultural eccetera eccetera. Un dialogo in cui la principale preoccupazione è presentarci a mani vuote, sbarazzandoci del nostro passato. Un dialogo che non conserva niente. La scuola è diventata il luogo principe del politically correct, del peggiore nuovismo. E il ministro Fioroni mi sembra l’immagine di questa situazione, un ascolto totalmente vuoto di contenuti». Ma gli insegnanti non saranno tutti così, si spera. «No, certo, ce ne sono moltissimi che fanno il loro lavoro con passione e competenza. Ma il problema è che sono in un sistema in cui non c’è alcun principio virtuoso di riconoscimento del merito, fosse anche simbolico». Siamo alle solite. Tutti a invocare la meritocrazia, poi però quando qualcuno prova a introdurne anche solo un goccio fa la fine della Lombardia. «Quella di Formigoni è una proposta interessante, ma non si può versare vino nuovo in otri vecchi: cambiare un solo elemento (come il reclutamento dei docenti) in un sistema interamente malato può portare conseguenze peggiori». Allora cambiamolo tutto il sistema. Di cosa c’è bisogno? «Libertà di scelta garantita dal buono scuola, possibilità per le scuole di scegliere gli insegnanti, valutazione dei medesimi anche da parte di studenti e genitori, abolizione del valore legale del titolo di studio: così si disegna un sistema realmente nuovo. Ma non so se si riuscirà mai a realizzarlo».
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