
In tutto il mondo
Stimo e apprezzo profondamente don Massimo Camisasca perché non va in tv, non cerca la ribalta, non indulge alla vanità, ama il confronto senza rinunciare a un’oncia della sua fede e delle sue convinzioni. Don Massimo è franco e diretto senza essere cinico, intellettualmente libero senza cadere nella spregiudicatezza, profondo senza divenire oscuro. Amo molto conversare con lui, scoprire la sua profonda cultura mai ostentata, la sua intelligenza anche delle cose complesse o riservate, che penetra e conosce senza mai esibirle. Mi è parso un figlio del cattolicesimo del Nord, che sarebbe sciocco tentare di imprigionare nelle categorie consunte del conservatorismo o del progressismo. L’intervista che segue nasce da una lunga serie di incontri.
Se non riesce a renderne appieno la profondità, la colpa è solo dell’intervistatore. Spesso si è trovato da solo, con Wojtyla e Giussani. Altre volte il cardinale Ratzinger veniva a cena da lui nell’appartamento romano che divideva con un altro sacerdote cresciuto in Cl, Angelo Scola. Camisasca, storico di Comunione e Liberazione, di cui è stato per quindici anni l’ambasciatore in Vaticano, pubblica ora da Piemme il libro Il vento di Dio in cui racconta la propria storia e quella della Fraternità San Carlo, la comunità di sacerdoti da lui fondata e presente oggi in quindici paesi, dal Kenya alla Siberia, dagli Usa a Taiwan.
Don Camisasca, il primo dei protagonisti del suo libro, Il vento di Dio, è don Luigi Giussani. Quando l’ha incontrato per la prima volta?
A tre anni e mezzo. Vivevo a Leggiuno, e caddi malato a causa dell’umidità del clima di lago (in casa non c’era il riscaldamento). Mi portarono da uno zio medico a Milano, che aveva in cura anche don Giussani. Lo incontrai in sala d’aspetto. Era già un sacerdote importante, aveva solo quattro anni di Messa, e infatti lo zio mi parlò di lui, e il suo nome mi rimase impresso. Lo ritrovai a 14 anni: era il mio insegnante di religione al liceo Berchet, a Milano.
Quale impressione le fece?
Mi incantò con la forza della sua logica, la profonda conoscenza dell’uomo, e la capacità di entrare in comunicazione con la classe, anche attraverso la provocazione intellettuale. L’ambiente era quanto di più lontano dalla Milano cattolica: il preside era ebreo, l’impronta culturale era socialista e libertaria. Ciò fu una fortuna per Giussani, che ebbe modo di attrezzarsi a dialogare con chi era molto lontano da lui. Il sabato poi ci si ritrovava al Raggio. La sua forza di attrazione era tale che tra noi c’era pure il giovane Giulio Giorello, già allora un po’ curvo, che oggi è molto critico con Cl.
Può dirmi in poche parole chi è stato secondo lei don Giussani?
Un uomo che cercava se stesso in ogni uomo, curioso dell’umanità di tutti e assieme un uomo che mendicava Cristo in ogni cosa. Così ne è diventato testimone.
Il Sessantotto la coglie all’università.
Alla Cattolica, l’università di Capanna, di cui ero compagno di corso. Filosofia. L’impressione, che condividevo con Giussani, era che la contestazione partisse da qualcosa di autentico, da un bisogno profondo, che però avrebbe preso una strada non più condivisibile. Per dirla con Alberoni, il movimento ebbe un’involuzione verso il partito, o verso i gruppetti. La preoccupazione di Giussani era di non trattare la Cattolica come una qualsiasi università: la Cattolica era parte della Chiesa. Avevo parlato a don Giussani del mio desiderio di vivere come lui, di diventare prete. Pensavo già allora alla vita comune. Desideravo vivere in una comunità e pensai ai domenicani: ma il convento bolognese dove andai era squassato dai travagli del tempo, e alcuni tra i frati che avrebbero dovuto vegliare sulla tomba del santo erano in grande confusione, talvolta attenti più alla rivoluzione che alla fede.
Per lei sono gli anni dell’Azione Cattolica.
Fin dal ’67 ero tra i giovani che il cardinale di Milano Colombo aveva chiesto a don Giussani per rianimare l’Azione Cattolica. Divenni il presidente dei giovani della diocesi. Ma nel ’72 a noi ciellini vennero chieste le dimissioni. Domandai al cardinale il permesso di entrare nel seminario di Venegono: mi fu negato. Cominciai a cercare un vescovo disposto ad accogliermi. Lo trovai a Bergamo in mons. Gaddi.
Nel 1978 lei arrivò a Roma. Cosa ricorda di Giovanni Paolo I?
Il suo brevissimo pontificato creò un cambiamento di clima nella Chiesa, assolutamente imprevedibile: apparvero in lui, sul suo volto e nelle sue parole, la bellezza e la semplicità del cristianesimo.
Nel terzo volume della sua storia di Comunione e Liberazione, pubblicato dalle edizioni San Paolo, lei si sofferma a raccontare diffusamente e con dovizia di particolari il rapporto tra don Giussani e Karol Wojtyla. Quale idea di sintesi si è fatta di Giovanni Paolo II?
Un gigante, un uomo poliedrico, consapevole del proprio ruolo messianico, che ha lanciato se stesso in un infinito numero di direzioni per riportare Cristo nel cuore degli uomini e della storia. È stato attore, poeta, sportivo, poliglotta. eppure così umano, così attento. Aveva bisogno di un centro molto profondo per spingersi molto lontano. E questo centro era il misterioso rapporto con Colui che lo aveva scelto.
Agli anni Ottanta risale la sua consuetudine con Ratzinger. Cosa la colpisce oggi di Benedetto XVI?
Il suo modo di considerare i problemi partendo sempre da una prospettiva storica. La nostra coscienza della verità avviene nella storia perché la verità si mostra sempre in un avvenimento.
Qual è oggi lo stato della Chiesa italiana?
Vedo un pericolo: la tentazione del potere. Talora si privilegia l’idea del vescovo amministratore più che pastore e profeta. Ma la Chiesa ha bisogno di pastori e di profeti, oltre che di santi. Assieme a grandi pastori (me ne lasci citare uno, Ruini, che in questi ultimi venti anni ha fatto un lavoro straordinario), ci sono prelati sensibili all’applauso dei media e al fascino della carriera. Il carrierismo è una piaga grave, soprattutto se diventa un lenimento alla verginità: come se la possibilità di una pienezza affettiva venisse cercata nel potere. Mentre un prete non ha bisogno del potere perché la sua umanità sia compiuta, e può trovare proprio nella verginità la pienezza degli affetti.
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