La Musa assistita

Di Simone Fortunato
29 Marzo 2007
Così la (costosa) stampella dello Stato finì per azzoppare il cinema tricolore. Vale davvero la pena spendere 3 milioni di euro per un film che ne incassa 7 mila? La settima arte italiana è al solito bivio. Da quarant'anni

Immaginatevi un cinema che proietti solo (o quasi) film europei e soprattutto italiani. Un multisala dove, per vedere una pellicola pluripremiata agli Oscar, devi sorbirti le ultime opere di Lina Wertmuller e Egidio Eronico. Abbinate. Non è fantahorror ma la realtà immaginata dal disegno di legge targato Rifondazione Comunista, presentato nel luglio scorso e ritirato circa un mese fa. Il ddl, che portava la firma degli onorevoli De Simone e Guadagno (Vladimir Luxuria), vincolava i finanziamenti pubblici a una sorta di “certificazione di italianità” per le pellicole, ingessando ancora di più il già asfittico mondo della cinematografia italiana, su cui si sono stratificati anni di incrostazioni assistenzialiste.
L’inizio del disastro ha una data ben precisa. È il 4 novembre 1965, giorno in cui viene approvata la famigerata legge Corona che introduce il finanziamento pubblico del cinema italiano. Il principio è giusto: in teoria attraverso un intervento dello Stato a fondo perduto si dà la possibilità a talenti squattrinati di produrre e dirigere un film, che diventa un’opera potenzialmente accessibile a tutti. Feroci le proteste dei produttori di punta di allora, da Carlo Ponti a Dino De Laurentiis, secondo cui la legge condannava definitivamente il nostro cinema alla “inesportabilità”. In effetti la norma stabiliva che per accedere ai finanziamenti i film dovessero essere rigorosamente italiani, dal cast al linguaggio. Il risultato è stato che sempre meno si sono visti negli ultimi decenni produttori nel senso proprio della parola in grado di assumersi i rischi dell’impresa, calcolando copertura e profitti. Del resto come dargli torto se dietro c’è uno Stato che paga e non presenta mai il conto? Nel periodo in cui la legge rimane in vigore (ossia fino al 1994) lo Stato finanzia circa 500 film. Il 20 per cento di essi non raggiungerà mai le sale e per il 44 per cento delle pellicole le case di produzione non restituiranno mai il prestito. Senza contare che in 30 anni la legge ha avuto un effetto contrario a quello desiderato: si è passati dalle 188 pellicole prodotte nel 1965 alle 75 del 1995.
Un tentativo di razionalizzare le spese cinematografiche viene fatto negli anni Ottanta, con la creazione del Fus (Fondo unico per lo spettacolo), ma è solo nel 1994 che arriva la legge che tenta di riscrivere le regole per accedere al finanziamento pubblico. La riforma introduce il concetto di film di “interesse culturale nazionale”, prevede che i finanziamenti pubblici possano coprire fino al 90 per cento dei costi e soprattutto limita a venti il numero massimo di pellicole finanziate ogni anno. A stabilire quali siano i “magnifici venti” una Commissione composta da addetti ai lavori (funzionari del Ministero e critici di partito) il cui metro di giudizio appare indecifrabile. Che cosa possono avere di culturale film come Senso ’45 di Tinto Brass o Branchie, il primo e fortunatamente ultimo film con Gianluca Grignani protagonista?

Chi paga il conto?
Sta di fatto che anche questa riforma si rivela un buco nell’acqua, e non per il calo del numero di film prodotti, ma per le spese esorbitanti sostenute dallo Stato a fronte degli scarsissimi risultati ottenuti. Lo Stato italiano, infatti, ha ammesso al finanziamento 365 film ed erogato fondi per un totale di oltre 500 milioni di euro. Dei 365 film finanziati solo 232 sono usciti nelle sale. Questi film hanno incassato in totale poco più di 70 milioni di euro. Molti film hanno fatto una brevissima comparsata nelle sale prima di cadere nel dimenticatoio. Peperoni ripieni e pesci in faccia di Lina Wertmuller, una delle registe che più ha beneficiato dei milioni di euro statali, ha avuto più di 3 milioni e mezzo di euro di finanziamento, incassandone meno di 7.000. Concorso di colpa di Claudio Fragasso è un thriller del 2004 con Francesco Nuti protagonista. A fronte di un finanziamento di 2.993.384 euro ha incassato 79.000 euro scarsi. Non era certo un film da Oscar ma avrebbe potuto incassare di più se fosse stato distribuito con più oculatezza e con un maggior numero di copie. Del resto la maggior parte dei film dello Stato sono invisibili: la loro vita media nelle sale non supera la settimana di programmazione e spesso non vengono proiettati al di fuori degli schermi romani. Il problema va quindi oltre il finanziamento in sé e tocca anche la bassa qualità dei film in questione e l’investimento praticamente nullo in marketing e distribuzione.
Nel 1998 l’allora ministro per i Beni Culturali Walter Veltroni mise a punto una nuova modifica di legge, che obbligava tv pubblica e privata a reinvestire parte degli utili per finanziare opere audiovisive italiane o europee. Su queste basi, Rai e Fininvest hanno fondato Rai Cinema e Medusa, rafforzandosi e creando un duopolio.

Inseguendo la qualità
Nel 2004 arriva la cosiddetta Legge Urbani, che al grido di “meno sprechi e più qualità per il cinema italiano” abbassa al 50 per cento il tetto massimo finanziabile per una pellicola (ma per le opere prime e seconde si rimane al 90 per cento), suddivide in due la Commissione per la Cinematografia (una per il riconoscimento dell’interesse culturale, l’altra per la promozione e per i film d’essai), introduce un sistema diverso per stilare la graduatoria dei film finanziabili (al giudizio “critico” delle Commissioni si affianca un sistema di criteri automatici), e introduce il product placement, ossia la possibilità di esporre marchi pubblicitari all’interno della pellicola. La legge Urbani tenta di correggere ma non riesce a invertire la direzione assistenzialista in cui si muove il mondo della cinematografia italiano. Continuano a mancare sistemi di agevolazione fiscale per chi decide di investire in un film (in Gran Bretagna, anche il privato può investire nelle produzioni cinematografiche ottenendo sgravi che possono arrivare fino al 100 per cento). Infine, altra nota dolente, manca un’efficace strategia di marketing a sostegno dell’uscita dei film nelle sale.
Oggi la partita sembra riaprirsi. Già, perché se il ddl Luxuria-De Simone appare ormai defunto, resta in piedi la proposta di legge formulata in aprile da Andrea Colasio della Margherita, il partito che detiene, con Francesco Rutelli, la delega allo Spettacolo. Con il progetto ambizioso contenuto nel ddl 120 il responsabile Cultura della Margherita dichiara chiusa l’epoca della “Musa assistita”: nella nuova legge rimane il Fondo unico per lo spettacolo, ridotto però a serbatoio per le opere prime, ma per il resto si guarda al cosiddetto modello francese da cui viene mutuata la “tassazione di scopo”. In pratica si tassano tutti coloro che hanno a che fare con il cinema: tutta la filiera, dalle pay tv all’home video, passando per gli operatori di rete e per la telefonia. Viene istituita inoltre un’Agenzia nazionale per il Cinema e l’Audiovisivo, con compiti per ora piuttosto vaghi di promozione ma anche ispezione delle opere cinematografiche ed erogazione fondi e si impongono dei lacciuoli alla distribuzione di film (i multiplex dovranno riservare non meno del 35 per cento degli schermi al nostro cinema, senza poter destinare, nell’arco delle medesime 24 ore, più di uno schermo allo stesso film).

Imbavagliare lo schermo
Anche la legge Colasio, quindi, appare in continuità con l’impostazione dirigistico-assistenzialista dei governi precedenti. Nulla è cioè cambiato all’orizzonte. Anzi, la situazione pare aggravarsi in una logica iperstatalista, a partire proprio dal modello francese che secondo Colasio tiene insieme mercato e qualità. In realtà il modello francese è un modello che cammina sui privati. In Francia il finanziamento pubblico si fonda su prelievi fiscali: 10,9 per cento sul prezzo del posto in sala, 5,5 per cento sul fatturato dei canali televisivi pubblici e privati, il 2 per cento sul prezzo di vhs e dvd e il 2 per cento sul video on demand. Altre risorse per l’industria sono rappresentate dagli obblighi di investimento in acquisto di opere per tv in chiaro e pay-tv (60 per cento di opere europee di cui il 40 per cento francese).
Ma il sistema vigente Oltralpe si basa anche su forti limitazioni del numero di film che le reti pubbliche e commerciali possono trasmettere ogni anno e su obblighi di diffusione di opere europee e francesi. In Italia, l’applicazione di queste limitazioni sconvolgerebbe i palinsesti delle tv e scatenerebbe proteste di fronte all’impossibilità di guardare film gratis. Le tv italiane, infatti, nell’arco di un anno trasmettono il seguente numero di film: Rai Uno 363, Rai Due 183, Rai Tre 571, Rete 4 1.094, Italia 1 655, Canale 5 431, La7 532. Senza contare che godono dell’assoluta libertà di programmare film in qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi giorno della settimana. Una libertà che attraverso questa legge sarebbe negata.
Anche le pay tv se la vedrebbero male, essendo soggette a limitazioni nel numero di film che possono essere trasmessi, ma in un contesto molto favorevole vista la sostanziale assenza di questo contenuto sulle tv in chiaro. In Francia ad esempio, le tv a pagamento non possono trasmettere più di 500 film sul totale della programmazione del canale e un film non può essere diffuso più di sette volte nell’arco di tre settimane. Se quindi, come sembra, dovesse passare la legge Colasio, la situazione sarebbe difficile. È una proposta che, per non voler scommettere sulla libera intraprendenza del singolo, tassa, vieta, impone e punisce, aprendo a un futuro inquietante fatto di pochi film sulla televisione in chiaro, ancora meno sulle pay tv (che, come succede in Francia, non potendo programmare film, riempirebbero i palinsesti di fiction e serie televisive), quasi nessuno il fine settimana. Per chi ama il cinema: la scelta è obbligata. Multiplex costosi dove la scelta di film “extracomunitari” sarà pure ristretta. O pirati su internet, l’unico schermo ancora libero.

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