Il furbetto buono

Di Oscar Giannino
01 Febbraio 2007
Telecom, Rcs, Mediobanca e Generali. Fino all'anno scorso Tronchetti Provera era il messia dell'establishment italiano. Ecco perché non finirà come Ricucci

Ora che l’amarezza e lo scorno nei confronti di Marco Tronchetti Provera hanno sostituito anni e anni di servo encomio da parte dei media, è opportuno riprendere in mano la sua prima autobiografia autorizzata. È uscita solo un anno fa, nel dicembre 2005, ma a rileggerla sembrano passati cent’anni. Dalla prefazione di Ferruccio De Bortoli, il direttore del Sole 24 Ore, il quale indica Tronchetti come l’esponente più promettente di quella classe dirigente che serve al paese per «uscire dalla bonaccia», al capitolo finale di Fabrizio Spagna, dove la «sfida finale» che Tronchetti avrebbe accettato (non solo nella realtà di Pirelli e Telecom Italia, ma come «leader nell’intero capitalismo italiano») sarebbe stata quella della «responsabilità sociale d’impresa, che non deve diventare una mano di bianco che gli imprenditori tendono a darsi per migliorare l’efficacia della propria azione di marketing. La trasparenza e il rispetto delle regole devono essere vissuti dall’imprenditoria italiana non come un inutile peso cui si è costretti, ma come una opportunità di far crescere quel valore intangibile che, forse, pesa più di ogni altra cosa nel bilancio di un grande gruppo aziendale: la reputazione aziendale».
Con tutto il rispetto, viene purtroppo da ridere. Dopo oltre tre anni di indagini da parte dei pm milanesi sugli illeciti perpetrati dagli spioni fioriti al vertice della security di Pirelli e di Telecom, alla quarta ondata di arresti, alla fine il gip, convalidando le misure richieste dagli inquirenti (ma non dai pm, particolare invero non secondario), ha finito per mettere nero su bianco il più che legittimo dubbio che chi qui scrive ha avanzato fin dal principio, mentre per lunghissimo tempo l’indagine languiva in modo da consentire alla procura di Milano di ottenere da Telecom tutta la cooperazione del caso sulla vicenda Abu Omar. Il dubbio, cioè, che l’illecito dossieraggio durato anni e anni, compiuto da Giuliano Tavaroli e Fabio Ghioni, commissionato ai vari Emanuele Cipriani e Marco Bernardini, avvenisse, oltre che in triangolazione con Sismi e Sisde, a conoscenza diretta, se non (in molti casi) su istruzione esplicita, del vertice aziendale, in primis dunque di Marco Tronchetti Provera. Alle considerazioni del gip, questa volta, Tronchetti non ha potuto reagire minacciando querele milionarie, come ha fatto per anni in replica ai pochi articoli di stampa considerati “scomodi”. Ha vergato, invece, una lettera di autodifesa, nella quale ha però eluso ancora una volta tutti gli interrogativi inquietanti di questa vicenda. Una vicenda gravissima, dal momento che per anni è stato adulterato il mercato, spiando i concorrenti di Telecom in Italia e all’estero, spiando giornalisti e aziende editoriali rei di non srotolare il tappeto rosso a Telecom, e forse spiando pure la politica, anche se su questo gli omissis degli atti d’indagine ancora non consentono altro che congetture.

I telefoni e i giornali
Poiché Tronchetti e la “sua” Telecom erano e sono al centro dell’asfittico intreccio bancario-industriale italiano, non potrebbe essere più brutale il ridimensionamento delle aspettative un tempo riposte nel Tronchetti rifondatore nientemeno della classe dirigente italiana. Tuttavia sbaglierebbe di grosso chi a questo punto prevedesse la sua caduta repentina. Nel settembre scorso, con l’avvento di Guido Rossi in Telecom, nominato presidente della società con il compito di difenderla meglio dagli artigli di Romano Prodi, è iniziata una ritirata strategica che durerà ancora molto tempo. Non è un caso che i pm milanesi fino a oggi abbiano preferito procedere coi piedi di piombo e si riservino di arrivare al “terzo livello” della rete di spionaggio illecito solo dopo averne esplorato ancora a lungo modalità, complicità e obiettivi. Comunque, al di là dei tempi giudiziari, è quasi impressionante come in poche settimane si siano riallineate molte delle diverse opinioni in merito al ruolo che Tronchetti potrà esercitare in quattro grandi partite.
In Telecom, dacché la presidenza Rossi è stata originariamente intesa come uno scudo a difesa dell’80 per cento di Pirelli in Olimpia (il gruppo che controlla l’ex telefonica di Stato), oggi tutti vedono nell’armistizio tra Carlo Buora e i dirigenti legati a Riccardo Ruggiero solo una soluzione-ponte (per di più a una sola campata) in attesa di apprendere, entro la primavera o l’estate, se Pirelli riuscirà a impensierire San-Intesa con i suoi tentativi di “tirare su” il premio di controllo della propria quota in Olimpia. E se tali tentativi, basati sull’avvaloramento di contatti internazionali con improbabili gruppi indiani e russi, impensieriranno la superbanca al punto da pilotare in Olimpia un gruppo italiano che attualmente manca all’appello, stante la malaparata dei Benetton, privati della maxicedola attesa da Autostrade.
In Rcs il ribaltamento dei poteri è reso evidente dallo spazio, un tempo inimmaginabile, oggi conquistato a forza dagli articoli dell’ottimo Massimo Mucchetti sulle spiate interne al gruppo ordite da Telecom ai danni suoi e dell’ex amministratore delegato Vittorio Colao. Il destino dell’eterogenea compagine societaria è avviato al modello duale (che tanti consensi ottiene in quanto moltiplicatore di poltrone e strumento atto a stemperare conflitti senza risolverli). E in molti pensano che la presidenza dell’eventuale consiglio di sorveglianza sia l’approdo migliore per Luca Cordero di Montezemolo, che ormai si avvia alla parabola finale in Confindustria, perdendo pezzi e consensi proprio tra i più filoulivisti dei suoi sostenitori: un altro esempio di “rifondatore” della classe dirigente italiana che non ha mantenuto le promesse.

Le banche e le assicurazioni
In Mediobanca e in Generali – i due fronti più caldi nei quali un Tronchetti in forza avrebbe potuto far da contraltare al Giovanni Bazoli “pigliatutto” – inevitabilmente la debolezza tronchettiana è un problema per Cesare Geronzi e la sua Capitalia, che contavano su di lui per avere argomenti solidi da contrapporre alla scalata che da Brescia Romain Zaleski, socio di Bazoli, sta portando a tutti gli assetti più delicati del risiko italiano. Di fronte all’imbarazzo che palpabilmente crea la garanzia della conferma di Antoine Bernheim come presidente di Generali da parte dello schieramento di azionisti che a Trieste fa capo a Bazoli, in cambio di un Leone Alato sempre più “catturato” da Brescia, in altri tempi e in un diverso stato di forma avrebbe potuto essere proprio Tronchetti l’uomo decisivo per cambiare qualche carta in tavola. E lo avrebbe potuto fare col probabile consenso anche di Monte dei Paschi, e delle fondazioni socie dell’ex Sanpaolo, che giustamente tengono più all’originale progetto di bancassurance Eurizon (ora messo in crisi dall’Antitrust proprio per via della cointeressenza di Generali in Intesa).
È evidente, insomma, quanto siano numerose e pesanti le ragioni per cui i pm milanesi procedono con tanta prudenza nei confronti di Tronchetti Provera. Mica possono riservargli la stessa travolgente durezza con cui nel 2005 in pochi mesi spazzarono via i famigerati “furbetti del quartierino”, gente che le spiate illecite su telefoni e computer di tutti se le sognava, semplicemente.

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