
Se il cardinale vuol fare il re
Si dividono sulle liberalizzazioni, straparlano di crescita. Le immagini dell’Unione dopo il summit casertano sono quelle che sono. Ma quando si parla di crescita, in Italia, solo a parole si è tutti d’accordo. Diciamolo chiaro: non è un problema di finanza pubblica. Che più grassa è, più alla crescita si oppone. Invece che aumentare le tasse e pensare a più spesa pubblica, un “sano” discorso sulla crescita dovrebbe essere ben altrimenti articolato.
Le sole ricchezze finanziarie degli italiani ammontano a 1,5 volte il Pil. Di queste, oltre la metà, pari all’80 per cento del Pil, è nelle mani di gestori professionali, assicurazioni, fondi patrimoniali, gestioni patrimoniali di banche. In un momento in cui i tassi sono ancora bassi, e il Roe (Return on equity, ossia l’indice di redditività) delle imprese quotate nel mondo è ai massimi, converrebbe una struttura patrimoniale in cui i debiti finanziano investimenti a rischio. Invece i gestori investono i patrimoni loro affidati prevalentemente in reddito fisso, e senza debiti. Di conseguenza, scontate le provvigioni di gestione, il patrimonio degli italiani ha un rendimento praticamente nullo. E lo stesso rischia di succedere al Tfr, dove i fondi pensione, per timore di fare peggio, mirano a mantenere il rendimento attuale: logico che siano tanti a non voler cambiare.
I consumi snobbati
Il conto depositi e impieghi delle banche italiane vede i primi ammontare a circa 750 miliardi di euro, di cui oltre l’85 per cento in conti correnti; i secondi a oltre 1.200 miliardi di euro, dei quali poco più di un terzo è a breve termine perché da noi non si incoraggiano le famiglie a prestiti per accrescere i consumi, quasi due terzi a medio e lungo termine, e di questi due terzi di 1.200 miliardi ben la metà è destinato a quella vera e propria malattia nazionale che per gli italiani è rappresentata dai mutui ipotecari: uno degli impieghi meno redditizi e più preistorici che si possano immaginare, del proprio portafoglio.
È una fotografia sconfortante. Perché per accelerare la crescita la domanda non è quanti soldi spenderà Bersani coi suoi due nuovi fondi di “Impresa 2015”. Bensì: chi finanzia il rischio? Non la Borsa: quale società in Italia è mai andata in Borsa a chiedere soldi per un progetto strategico? In Usa, tra la prima offerta sul mercato e il secondo giro di finanziamento il tempo medio è due anni: da noi infinito, mai nessuno ritorna a chiedere capitale per crescere, le Ipo (Initial public offering) si fanno per incamerare denaro da parte di chi controlla l’impresa. La bizzarra idea di far fare ai piccoli azionisti da venture capital è fallita, il Nuovo Mercato ha chiuso. Da noi la Borsa è un metodo per vendere quote di proprietà mantenendo i benefici privati del controllo, e predisponendo una exit strategy. Non i corporate bonds, uno strumento distrutto dalle note vicende Cirio e Parmalat e riservato solo alle imprese grandissime (per due terzi, la sola Telecom Italia).
Le banche, allora, si direbbe: sono loro, che devono finanziare il rischio. E qui veniamo al nodo vero. Quello che non si affronta coi pannicelli caldi dell’azzeramento dei costi di cambio conto corrente. Quando si sono privatizzate le grandi banche pubbliche, nessuno ha davvero voluto sostituire il mercato allo Stato. La funzione del mercato è stata surrogata dalle Fondazioni, agevolate nelle concentrazioni in pochi gruppi bancari tra i quali è stata eliminata la concorrenza. Dato che le banche universali gestiscono l’intermediazione creditizia in ogni sua forma, possiedono la Borsa e partecipano al capitale di aziende industriali, la finanza diventa una sorta di servizio pubblico. Solo che tale servizio pubblico è esercitato in Italia solo a vantaggio di chi le banche le controlla. L’utile degli istituti italiani è cresciuto nel 2006 oltre il 15 per cento. Invece di combattere tra di loro per portarsi via i clienti, si integrano verticalmente per avere più prodotti da vendere agli stessi clienti. Le banche straniere comprano piccole banche regionali, per fare concorrenza al margine, e lucrare la differenza tra i nostri prezzi e i loro costi. Se le banche per prime evitano il rischio, chi vende il rischio ai clienti? Quando le cinque maggiori banche italiane che avevano sottoscritto il prestito convertendo per 3 miliardi alla Fiat, ne hanno perso, tra minusvalenza e interessi, quasi 1 miliardo senza conquistare il controllo di Torino, qual è il banchiere che ha perso il sonno? I patti di sindacato bloccano danaro in modo improduttivo a difesa di interessi o di valori che non sono quelli delle banche che vi partecipano, e dei loro azionisti: quale banchiere osa denunciare il fatto?
Ecco dunque che la sferza alle banche va esercitata con cura. Perché sono esse a doversi convertire alla cultura del rischio. Non si tratta di dividere il mondo bancario in una colonna di “buoni” – gli amici di Bazoli – e cattivi – gli “amici” di Geronzi. Un governo che miri alla crescita, dovrebbe abbattere le tasse a prodotti finanziari innovativi, di istituti che s’inventassero la bancabilità di asset immateriali, come i titoli di studio futuri per giovani all’inizio del loro percorso di studi, come la realizzazione di opere pubbliche che non andavano affatto tagliate come ha deciso il governo, perché per finanziarle non serve il denaro dello Stato ma avanza quello dei mercati mondiali gonfi di liquidità.
Chi spinge la produttività
La produttività non aumenta da sola: è il risultato di una continua tensione, di una maniacale pressione esercitata sulle aziende da chi fornisce loro i mezzi finanziari, e su questi dagli investitori a cui l’operatore ha venduto il rischio. È quello che succede nei fondi di private equity, e questo spiega il loro successo nel ristrutturare le economie del mondo. In un paese in cui le banche stesse si devono convertire alla cultura del rischio, sono lo strumento più adatto per operare la grande trasformazione della nostra struttura produttiva, nel manifatturiero dall’economia di nicchia all’economia di scala, e dal manifatturiero verso i servizi; e possono aumentare il rendimento della ricchezza finanziaria degli italiani.
Possedere la propria casa, comprare azioni, costruirsi un patrimonio, poter contare su un sistema finanziario che premi il rischio e la voglia di crescere: non solo quella delle imprese, ma a cominciare da quella delle famiglie. Dovrebbe essere questo, un programma di crescita serio. Non le chiacchiere su Alitalia e l’assunzione di centinaia di migliaia di precari nel settore pubblico.
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