
Noir siciliano
Il caso Buttafuoco – successo dell’anno, candidato al premio Campiello trombato da un rivale più presentabile – ha messo il fenomeno sotto gli occhi di tutti. Nostra signora della necessità, ultima fatica di Peppino Sottile che rievoca i tempi eroici de L’Ora, la gloriosa testata del giornalismo palermitano pioniera delle inchieste di mafia, ha rilanciato. Ma si tratta della punta emergente di un fenomeno assai diffuso e con molti aspetti di novità, il crescente successo di una letteratura siciliana che si affaccia sul mercato fuori da consueti quanto logori stereotipi. Ne parliamo con Beppe Benvenuto, membro della pattuglia che fondò Il Foglio, ora professore di storia del giornalismo all’università di Palermo.
«Ci troviamo di fronte a un fatto nuovo nella tradizione culturale della Sicilia. Nuovo intanto perché specificamente palermitano», sottolinea. «La letteratura siciliana infatti, tradizionalmente è identificata con Catania, la patria del verismo, o con altre realtà come l’Agrigento di Pirandello, o la Siracusa di Quasimodo o Vittorini. Tomasi di Lampedusa, l’unico grande palermitano, fu in realtà un estraneo, che la città ha ripudiato. Qui invece siamo di fronte a un fenomeno di cui la città è parte integrante, protagonista, presentata al di fuori dei soliti cliché: per gli scrittori siciliani di oggi Palermo è una metropoli come altre, che fa da sfondo a storie che hanno come soggetto la vita e i drammi della gente, i costumi della borghesia locale, un po’ – per fare un paragone ambizioso – come la Parigi di Maigret. E cito Maigret non a caso, perché l’altro dato di novità è la fioritura di un genere antico ma che qui si carica di colori nuovi: il giallo d’autore».
Perché questi nuovi romanzi sono in gran parte polizieschi. È l'”effetto-Camilleri?”
Il boom di Camilleri, certo, può aver aiutato l’operazione. Ma le ragioni sono più profonde. Intanto il romanzo investigativo è di per sé un genere letterario adatto a raccontare il dolore del mondo, un buon giallo è sempre un romanzo di disperazione. Così, nelle storie dei giallisti siciliani certo c’è un colpevole ma, anche qui un po’ come in Simenon, nessuno è innocente. Il noir è uno strumento con cui si possono raccontare i vizi, gli ambienti di Palermo in modo non semplicistico, fuori dallo stereotipo del manicheismo mafia/antimafia. Poi c’è l’eredità di Sciascia. I suoi ultimi libri, da L’affaire Moro in avanti, sono in realtà dei polizieschi, anche se costruiti su casi reali. È stato lui a sdoganare il giallo d’autore, a far pubblicare autori come Friedrich Glauser o William Burnett, fino ad allora pressoché sconosciuti in Italia. Così ha preso l’avvio una tradizione di giallo colto, pieno di riferimenti letterari, che permette un viaggio antropologico più quotidiano e interessante. Il racconto d’indagine consente un passo più disincantato, un tratto ironico – e autoironico – che è un registro che non appartiene alla tradizione dell’isola.
Si spieghi meglio.
La Sicilia è barocca e mitica. È un luogo in cui tutto rimane uguale a se stesso perpetuandosi in infiniti giochi di specchi; tutto si depreca e nulla si risolve. La mafia, se ci pensa, è barocca: non ha capo né coda, è inafferrabile, ogni volta che ti sembra di averla compresa rispunta diversa da un’altra parte. A cui nessuno, al di là delle esercitazioni retoriche, sa dare una risposta fattuale. E così è la tradizione letteraria: Buttafuoco, per fare un esempio evidente, è barocchissimo, barocco è Tomasi di Lampedusa e racconta infatti una società in decomposizione. Il noir, invece, mette in scena una società che è sì in disfacimento – la Palermo che si sbriciola in un urbanesimo degradato – ma non un disfacimento mortifero: una città con cui si può convivere. Perfino con ironia.
Una novità prerogativa di autori giovani…
Non necessariamente. Certo, c’è una generazione di quarantenni, come Salvo Toscano, di cui è appena uscito L’enigma di Barabba (Flaccovio), o Davide Camarrone (Lorenza e il commissario, Sellerio). Ma ci sono anche autori come Santo Piazzese, che va verso i sessanta, il cui I delitti di via Medina-Sidonia è ormai un classico del genere. Tra l’altro Piazzese fa di mestiere il biologo universitario, e incontriamo qui un altro tratto originale di questa ondata letteraria: diversi fra i suoi protagonisti non sono scrittori di mestiere. Chi fa, appunto, il biologo, chi il giornalista, chi l’insegnante. Forse questo contribuisce a guardare il mondo con uno sguardo più disincantato.
La letteratura siciliana non è solo giallo.
No. C’è di tutto. Palermo è una città tenuta nel cellophane, come i paesi comunisti di una volta, non si butta nulla: ci sono perfino ancora un’attività teatrale e un editore che continuano a fare l’avanguardia degli anni Sessanta. Poi c’è la memoria, la storia, la riscoperta delle “altre storie”. Il romanzo di Buttafuoco, la guerra in Sicilia vista dalla parte di chi non abbandonò il fascismo, rientra in questo quadro; ma non è l’unico. Oltre al citato Peppino Sottile, che ridà voce a una stagione eroica della città, c’è ad esempio Domenico Seminerio – altro non più giovanissimo approdato tardi alla scrittura – che in Senza né re né patria rilegge la breve stagione del separatismo siciliano nel secondo dopoguerra, con un linguaggio modellato sulla secchezza della narrativa americana. Altro fenomeno ancora è la riscoperta di Maria Occhipinti. Comunista, fu a capo della ribellione di Ragusa agli Alleati nel 1944-45, un fenomeno in cui rivendicazioni sociali e difesa della tradizione locale si mescolarono in modo unico. Dopo la guerra fu messa al bando da Togliatti con l’accusa di trotzkismo, ma recentemente sono stati ripubblicati i suoi racconti dell’epopea di allora.
Questi ultimi non hanno avuto la stessa eco dei polizieschi.
Certo, il giallo siciliano ormai è un fenomeno di costume, se dal titolo si capisce che è un racconto d’indagine si può star sicuri che il libro tira. Poi i giallisti però sono più liberi, possono raccontare la storia con la libertà di chi inventa; gli altri invece finiscono inevitabilmente per sbattere contro la tradizione retorica, contro la storia con la S maiuscola e la sua retorica.
Il successo della letteratura siciliana è anche quello dei suoi editori…
Sa cosa diceva Sciascia? «Fare l’editore a Palermo è più difficile che coltivare fichi d’India in Piazza del Duomo a Milano». In questo panorama che ci sia una casa editrice ormai di livello nazionale è un avvenimento significativo, specialmente se pensiamo alla fine di altre sigle gloriose come Principato di Messina. Ma Palermo non è solo Sellerio. C’è un fermento diffuso. A Termini Imerese, ad esempio – lei ha idea di che posto sia Termini Imerese? – c’è una bellissima rivista di letteratura, che riprendendo l’antico neologismo di Prezzolini si chiama Gli apoti (quelli che non la bevono, a cui non la si dà a bere, ndr), fatta da un ragazzo di 22 anni?
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