
Metti la scuola in vetrina
L’idea venne, probabilmente, a Fabrizio Scheda. Erano i primi anni Novanta. Nel mondo dell’istruzione non statale (non si chiamava ancora “paritaria”) molte cose stavano cambiando. Da un lato cominciava a venir meno l’utenza tradizionale che chiedeva alla scuola “privata” una formazione genericamente “seria” e in qualche modo protetta. Dall’altro una manciata di scuolette, nate a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta per l’iniziativa un po’ garibaldina di gruppi di genitori decisi a prendere in mano fino in fondo l’educazione dei figli, cominciavano a diventar grandi, e volevano proporsi a tutti. Anche fra le aule insomma si cominciava a parlare di comunicazione, di visibilità, di marketing. Ma non è facile mettere in mostra un prodotto impalpabile come l’educazione. È Scheda, titolare appunto di un’agenzia di marketing (oggi si chiama skeda.com, ha sede a Faenza), vecchio amico al quale i primi gestori si sono rivolti per una consulenza, a lanciare la proposta: cos’abbiamo noi da far vedere, da mostrare alla gente? Noi stessi, i nostri insegnanti e i nostri ragazzi, la nostra opera. E allora quale lancio pubblicitario migliore che metterla sotto gli occhi di tutti, mostrare per un giorno al pubblico quello che siamo e quello che facciamo? «Come la vetrina della boutique o del salumiere dove trovo il bel salame tagliato o la pasta fresca esposta e uno passa di lì e dice “oh che bello, che voglia”» si legge in un documento del 1995 «la stessa cosa è per l’open day: io vedo qualcosa di buono, quindi desidero, sono affascinato, quindi mi interesserebbe entrare in rapporto con l’oggetto del mio desiderio da cui sono stato affascinato».
L’open day nacque così. All’inizio non fu facile. La scuola, per antica tradizione, si concepisce come un mondo a sé. Qualche insegnante brontolava per il tempo “perso”. Poi, poco a poco, l’idea si è chiarita: non si trattava di fare qualcosa di più, di diverso, ma di andare a fondo di quel che già si faceva, di chiarirne le ragioni per poterle dare a tutti. In molti casi è stata la riscoperta che quel che si faceva in classe aveva un valore che gli stessi insegnanti non sospettavano, l’occasione di «individuare ciò che rende speciale la quotidianità dei propri percorsi scolastici» (è sempre il testo del ’95). E per gli studenti dover mettere il risultato del proprio lavoro davanti a tutti è stato, da subito e sempre più, un’occasione per affrontarlo in modo più responsabile (quanti ragazzi giudicati mediocri si sono rivelati ciceroni di un’abilità insospettata!). Sempre poco a poco il rapporto si è in molti casi ribaltato: l’open day è diventato uno dei punti di riferimento del lavoro didattico, ci sono argomenti che si affrontano proprio con l’occhio fisso a quel momento pubblico. Insieme, l’apertura della scuola è stata un’opportunità per riscoprire o approfondire l’alleanza fra insegnanti e studenti, impegnati in una stessa opera, e tra scuola e famiglie, sempre più spesso anch’esse coinvolte nella preparazione dell’evento e nella proposta ad amici, colleghi, conoscenti. Insomma si è rivelato un gesto in cui forma e sostanza, contenuto e immagine crescono di pari passo.
Da quegli inizi molta acqua è passata sotto i ponti. Quelle scuolette sono diventate in molti casi grandi istituti, si sono trasferite in sedi più spaziose o hanno comprato gli edifici in cui avevano cominciato con un angolo in affitto. L’open day è ormai nella maggior parte delle scuole paritarie una realtà consolidata. E ha contagiato anche la scuola statale. Finita l’epoca staliniana dei “bacini d’utenza” che inchiodavano ogni famiglia alle bizze del direttore o del preside locale (anche se qualche assessore rifondarolo come quello di Bari sogna di tornarci), i genitori hanno imparato a guardarsi intorno, a valutare. Così l’open day figura ormai anche nel calendario di tanti istituti statali (anche se fanno un po’ più fatica, non è facile avere un’immagine pubblica se alla radice non c’è un progetto educativo condiviso); e ragazzi e famiglie che devono scegliere la scuola per l’anno successivo prima si fanno il loro bravo giro di ricognizione. Insomma un piccolo grande gesto di libertà, che costringendo ciascuno a rendere ragione del proprio lavoro contribuisce a rendere il nostro sistema scolastico un po’ migliore.
* Presidente Diesse
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