
La Cina è lontana
Dopo il viaggio in Cina di Roberto Formigoni nel 2003 un imprenditore lombardo ha venduto riso a tutti i ristoranti tipici italiani in Cina; dopo la missione della scorsa settimana guidata dal presidente Carlo Azeglio Ciampi forse i francesi riusciranno a vendere armi ai cinesi. Il paradosso vi sembra forzato o fazioso? Sempre meno della retorica tronfia che ha accompagnato sui due principali quotidiani (Corsera e Repubblica) la missione presidenziale e della spocchia del tutto fuori luogo del regista dell’operazione, il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Per una settimana giornali e telegiornali hanno vantato inesistenti successi della spedizione italiana e dipinto un quadro tutto roseo della Cina francamente imbarazzante. Un pugno di protocolli esecutivi e memorandum d’intesa, un investimento di 135 milioni di euro della Piaggio, alcuni contratti del valore di qualche decina di milioni di euro (fra i quali la ristrutturazione dell’Italian village di Tianjin, resa possibile soprattutto da precedenti sforzi della Regione Lombardia, che ha finanziato lo studio di fattibilità) sono stati fatti passare come un grande salto di qualità nei rapporti economici fra Italia e Cina. Nell’ottobre scorso Jacques Chirac aveva portato a casa dalla sua visita 20 nuovi accordi commerciali, comprendenti progetti per 1,45 miliardi di euro nel settore dei trasporti e dell’energia elettrica per la Alstom, treni per la metropolitana di Shanghai per 134 milioni (sempre Alstom), la gestione dell’acqua e degli impianti dei rifiuti nelle città di Shanghai e Qingdao per 680 milioni di euro che saranno incassati dalla Suez, la vendita di sei nuovi airbus. Il cancelliere Gerhard Schroeder, in visita negli stessi giorni della delegazione italiana, ha firmato una commessa per la consegna a Pechino di 19 airbus A319 e di 4 airbus A330 per un valore di quasi un miliardo di euro. Surclassata sul piano del business, la missione italiana si è battuta alla pari con quella francese in fatto di cinismo e di irresponsabilità geopolitica. E ha battuto tutti i record in fatto di provincialismo, dando l’impressione di scoprire il boom economico cinese con 15 anni di ritardo. Vediamo questi punti uno per uno.
Inutilità del cinismo italiano
Cinismo. Il 24 giugno scorso Carlo Azeglio Ciampi ha voluto rimarcare l’occasione della presentazione del Rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo a cura dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” con un messaggio che così recitava: «L’abolizione della pena di morte e la moratoria universale delle esecuzioni sono aspetti centrali dell’azione internazionale dell’Italia». Il 24 gennaio davanti al Senato aveva definito la campagna per l’abolizione della pena capitale «una campagna di civiltà». La Cina è il paese che ha totalizzato ben il 90 per cento delle 5.500 esecuzioni capitali compiute in tutto il mondo nel 2003, a volte per reati come l’evasione fiscale ed il furto. Ma Ciampi non ha proferito parola. La Cina è anche uno dei paesi meno liberi del mondo per quel che riguarda la libertà religiosa, ma anche su questo tema il capo dello Stato si è limitato a compiacere le autorità cinesi. «Visitare solo il tempio di Confucio – ha scritto padre Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia Asianews e autore del libro Missione Cina. Viaggio nell’Impero tra mercato e repressione – è agli occhi dei cinesi un appoggio senza condizioni alla politica del governo che esalta la figura e l’insegnamento dell’antico filosofo per un preciso progetto politico: frenare il cosiddetto “inquinamento spirituale” che viene dall’Occidente ed esaltare i nobili valori dell’obbedienza e del paternalismo». Pensare che questi atteggiamenti acquiescenti siano il prezzo da pagare per recuperare il terreno (economico-commerciale) perduto è assolutamente sbagliato: «I cinesi interpretano l’arrendevolezza come un segno di debolezza – spiega Cervellera –, se si vuole ottenere qualcosa da loro occorre trattarli con durezza. La sottoscrizione di nuovi contratti con gli americani si conclude quasi sempre con la liberazione di qualche dissidente o altre concessioni in tema di diritti umani, perché gli Usa pongono condizioni politiche alle relazioni commerciali. Le grandi compagnie americane sono socialmente responsabili: prima di firmare un contratto pongono condizioni in termini di retribuzione minima del personale e di condizioni di lavoro (mense, dormitori, sicurezza, ecc.). Alcune ditte arrivano addirittura a chiedere la liberazione di un vescovo, di un sacerdote, di un dissidente. In America ci sono molti gruppi di pressione che controllano l’operato delle multinazionali Usa in Cina, e questo favorisce comportamenti più etici. Non vedo niente del genere fra gli europei».
Vendere armi a un gigante antidemocratico
Irresponsabilità geopolitica. È eticamente accettabile ed è nell’interesse dell’Italia e dell’Europa abolire l’embargo e vendere armi alla Cina? Vittorio Emanuele Parsi, esperto di questioni internazionali, non è convinto che si possa rispondere “sì” ad entrambi gli interrogativi: «Il traffico d’armi è immorale solo se finiscono in mani immorali o nelle mani di chi le userebbe contro di noi, caso che non si applica alla Cina. La linea giusta è quella tenuta dagli inglesi: lavoriamo nel corso del 2005 ad un codice di regolamentazione europeo, e se alla fine la Cina rientra nei parametri, vendiamole pure le armi: l’equilibrio delle forze in Estremo Oriente non cambierà per questo, né l’egemonia Usa nell’area sarà compromessa o Taiwan sarà invasa: questi sono scenari irrealistici che gli americani mettono avanti solo per dissuadere gli europei dal compiere un atto a loro sgradito. Diverso il discorso per quel che riguarda le implicazioni della vendita di armi sofisticate alla Cina dal punto di vista strategico: rafforzare militarmente la Cina vuol dire condividere il punto di vista di Chirac, secondo il quale l’interesse strategico dell’Europa è sfidare e contenere a tutti i costi l’attuale egemonia americana. Una visione strategica buffonesca: un mondo multipolare grazie ad una Cina totalitaria e ad una Russia non completamente democratica è molto più pericoloso di un mondo unipolare sotto l’egemonia americana».
Paghiamo gli errori della Fiat
E veniamo al provincialismo. Paolo Alli è un dirigente del settore energia della Regione Lombardia. Frequenta la Cina da 25 anni, prima come dirigente industriale per conto della Franco Tosi di Lecco, produttrice di caldaie e turbine, successivamente assorbita dall’Ansaldo, poi come esperto nelle cinque missioni effettuate in Cina dalla Regione Lombardia negli ultimi sei anni. «È un po’ sorprendente – ironizza – che serva un viaggio del capo dello Stato per scoprire cose che da 15 anni tutto il mondo sa. Le cose che sento dire in questi giorni, in azienda ce le dicevamo nel 1995. Nel 1997 fui spedito in Cina per stringere alleanze strategiche per rendere competitivi i nostri prodotti: troppo tardi, i cinesi avevano già concluso le partnership necessarie con i tedeschi, gli americani, i francesi». Il tema del ritardo italiano torna in tutti i discorsi: «Con tutto il rispetto per il presidente di Confindustria, è un’ingenuità imperdonabile dire: “Abbiamo cercato di proporre la Palio per il mercato cinese, ma non l’hanno voluta”. In Cina ci sono stabilimenti Volkswagen che fabbricano auto per i cinesi da dieci anni. La logica: “Vado, vendo il mio prodotto e torno” è morta da un pezzo: i cinesi accettano solo chi fa le cose insieme a loro e gli insegna a farle». Contro Luca di Montezemolo lanciano strali soprattutto coloro che sono rimasti indispettiti dalle critiche che il presidente di Confindustria ha rivolto alle missioni in Cina compiute dalle Regioni italiane, giudicate una dispersione di forze. Formigoni ha risposto con eleganza sulle pagine del Sole 24 Ore, spiegando che l’operato regionale ha portato a un incremento dell’interscambio Lombardia-Cina e che la disponibilità a lavorare d’intesa con Confindustria e i ministeri centrali è massima. Meno accomodanti alcuni suoi collaboratori: «Montezemolo dice che negli anni Novanta l’Italia ha perso il treno della Cina, ma quel treno l’ha perso proprio lui», tiene a precisare Robi Ronza, consigliere del presidente lombardo per le questioni internazionali. «Negli anni in cui la Volkswagen, la Citroën, la Renault investivano in Cina, la Fiat investiva in Argentina. Le conseguenze di queste scelte diverse si sono viste. Le 500 imprese italiane insediate in Cina sono quasi tutte medie, è la grande industria italiana che è in ritardo sul mercato cinese. Ma lo Stato italiano, per ragioni storiche, ha sempre tutelato la grande industria e trascurato la piccola e media: per questo le Pmi chiedono aiuto alle Regioni, ed è giusto che le Regioni girino il mondo a proporre e sostenere le proprie eccellenze. Certo, la policentricità produttiva italiana ha bisogno di rappresentanza unitaria a livello istituzionale, ma questo non si fa inscatolando tutto nella piramide statale». Chissà se i neo-sabaudi accetteranno la critica.
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