
Che business il sindacato!
Sul finire degli anni Novanta, Gianni Agnelli dichiarò, in un’intervista al Corriere della Sera, che «il vero problema dell’Italia è di non avere avuto dieci anni di governo Thatcher». Al netto del realismo, ovvero del fatto che con un governo Thatcher la Fiat sarebbe fallita o finita in mano americana nell’arco di due anni, visto che con la Lady di Ferro casseintegrazioni e rottamazioni si sarebbero viste con il binocolo, questa frase ha un fondo innegabile di verità. Nel numero 29 di Tempi, Giorgio Vittadini ha avuto il coraggio di affrontare il vero nodo del problema dell’economia italiana, mentre a Roma si defenestrava Giulio Tremonti per giochi di potere e si dava vita a un girotondo tragicomico per trovare la “quadra” per il Dpef: il nemico dello sviluppo, dice Vittadini, è il partito della rendita, quei costi di Stato e di apparato per difendere i quali centrosinistra e una parte dello stesso centrodestra sono pronti a sacrificare il bene comune in nome del clientelismo e della difesa del privilegio. Da questa settimana cominciamo un viaggio nel mondo della rendita che ci accompagnerà fino all’inverno, durante il quale cercheremo di mostrare come questo paese non ha bisogno di lacrime e sangue o di finanziarie a colpi di aumenti delle accise, ma di una vera e proprio blue revolution thatcheriana, una scossa liberale che dica addio al monopolio del privilegio di parte e dell’interesse particolare. Da dove partire? Ma dai sindacati, ovviamente, gli stessi che all’inizio della settimana hanno gridato “giù le mani dallo stato sociale” minacciando barricate e scioperi a catena contro il governo e la sua politica economica ma che in realtà strepitano per difendere qualcosa di molto meno nobile dei sacrosanti diritti dei lavoratori: i finanziamenti statali.
PATRONATI, CAF E TANTI IMMOBILI
«Meno risorse ai patronati. I tagli partiranno dal 2005 per una cifra pari a 129 milioni, per salire a 134 nel 2006. Prevista anche una riduzione del fondo per le assunzioni: 20 milioni quest’anno e 80 nel 2005 e nel 2006». Questa una delle linee guida del documento preparato da Giulio Tremonti prima che il partito della rendita, che va dall’Ulivo ad Alleanza Nazionale passando per sindacati e Confindustria, ne chiedesse e ottenesse la testa. Toccatemi tutto ma non i miei privilegi, ecco il motto di chi, a fronte di un finanziamento ai partiti che in 5 anni porterà nelle loro casse circa 2mila miliardi di vecchie lire, in un solo anno si porta invece a casa quasi 2.500 miliardi. Un ordine di grandezza sei-otto volte superiore che ben spiega l’aggressività e il nervosismo della Triplice sindacale. Già, perché nonostante non abbiano obbligo di presentare bilanci (sono praticamente delle bocciofile), Cgil, Cisl e Uil godono di entrate da multinazionale grazie a voci come finanziamento ai patronati, i versamenti ai Caf, l’equivalente per i distacchi sindacali e i contributi a carico dell’Inps fino ai fondi per la formazione ed all’immenso valore degli immobili, le sedi delle Camere del lavoro di epoca fascista, che nel 1997 sono stati girati alle confederazioni attuali con un bel regalino del governo dell’Ulivo. Di fatto solo la Cgil si trova oggi ad amministrare un vero e proprio impero del mattone: 63mila metri quadrati, il cui valore catastale supera i 120 miliardi di vecchie lire. Ad esempio 15 miliardi di valore catastale per la sede della Camera del lavoro di Milano, 10 miliardi per quella di Brescia. A Roma la Cgil trasporti lavora in una palazzina da un miliardo e 690 milioni. E poi un’infinità di appartamenti e uffici: quattordici solo nella capitale, tre a Palermo, cinque a Catanzaro. L’anomalia di questo patrimonio è che la maggior parte degli immobili, come già detto, risulterebbe essere stata ceduta a titolo gratuito. Il sindacato ha ereditato dallo Stato e da immobiliari a sé collegate oltre il 70% del suo tesoro “casalingo”. E se non è proprietaria, la Cgil affitta, attraverso le sue Coop. Tanti i metri quadrati comunque acquistati. A Cagliari 550 metri quadrati, due uffici da 200 e uno da 150 e numerosi appartamenti di valore. Spaziosa la sede di via Nino Bixio a Roma: 1.000 metri quadrati disposti su quattro piani. Mezzo miliardo di vecchie lire per la sede di Sesto Fiorentino.
OGNI ANNO REGALI DI STATO PER 2.300 MILIARDI
Le risorse complessive che entrano nelle casse dei sindacati ogni anno superano i 2.300 miliardi di vecchie lire, ma se facessero conto solo sulle tessere non potrebbero nemmeno sostentarsi. A salvarli sono appunto le loro ingenti e garantite entrate di Stato oltre a qualche “trucchetto”: il referendum del 1995 aveva infatti abolito la trattenuta automatica sugli stipendi, che frutta 1.200 miliardi l’anno, ma questo risultato è rimasto lettera morta e la trattenuta i datori di lavoro la fanno ancora, versando i soldi direttamente ai sindacati, un servizio reso loro gratuitamente, per legge. Nella sola pubblica amministrazione, poi, i distacchi sindacali, ovvero i lavoratori pagati che non entrano nemmeno in ufficio, già nel 1998 erano 80mila. Ad oggi ammontano a due milioni di giorni di aspettativa, stipendi pagati a gente che non lavorava (dati Sole 24 Ore) per un esborso collettivo che supera i 400 miliardi di vecchie lire. Il sindacato inoltre può finanziare convegni, centri studi, riviste e case editrici, adunate romane noleggiando aerei, treni, pullman, navi traghetto, senza dover rendere conto del denaro che maneggia, e questo in virtù dell’articolo 39 della Costituzione che dice: «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso gli uffici locali o centrali, secondo le norme di legge… I sindacati registrati hanno personalità giuridica». Il fatto è che però i sindacati non si sono mai registrati e continuano a rimanere società di fatto, quindi a gestire migliaia di miliardi senza la minima trasparenza. Non presentano bilanci, non hanno rendiconti ufficiali, non hanno conti consolidati a livello di federazione. Fino ad oggi soltanto nel biennio 1994-95 con i ministri Cassese e Frattini si cercò di limitare strapotere e privilegi della Triplice, mentre fino al 2001 i governi ulivisti che si sono susseguiti hanno indossato più volte gli abiti dei Babbo Natale garantendosi la pace sociale in cambio della pecunia, che mai come in questo caso non olet. Ecco alcuni dei regali dell’Ulivo: il governo Prodi nel maggio del ’97, per mano dell’allora ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, elabora un vero capolavoro legislativo, la legge 127. La legge al suo interno cela un articolo che libera le associazioni dall’obbligo di autorizzazione nelle attività e nelle operazioni immobiliari. Nella finanziaria del 2000 si assiste all’istituzione dei fondi per la formazione continua gestiti da sindacati e associazioni degli imprenditori. Con il governo Amato, nel 2001 viene fissato l’importo fisso per i patronati calcolato su tutti i contributi obbligatori versati da aziende e lavoratori agli enti. C’è stato e resiste tuttora, poi, un rapporto perverso tra enti previdenziali e sindacati: come anticipato, fiumi di denaro arrivano nelle casse delle organizzazioni sindacali principalmente attraverso i patronati, i Caf (Centri di assistenza fiscale) e le deleghe sindacali sulle pensioni. La catena è ben studiata: i patronati si occupano prevalentemente di materia previdenziale come verifica delle pensioni, richieste di aumento e pratiche di invalidità, e per ogni pratica l’Inps rimborsa; l’assistito del patronato è anche un potenziale cliente del Caf.
LE PENSIONI AUMENTANO? LA TRIPLICE CI GUADAGNA
Ora arriva il bello: i Centri di assistenza fiscale, guarda caso nati sotto un governo di sinistra (governo Amato nel 1992), ricevono e compilano le dichiarazioni dei redditi e le spediscono via Internet, quindi con costi vicini allo zero, all’Inps; ad ogni spedizione corrisponde un rimborso. In loro soccorso è intervenuto un decreto del 1998, con il governo D’Alema, che concede ai Caf l’esclusiva sulla verifica della conformità dei dati indicati nei 730, cosicché anche il ministero delle Finanze contribuisce al business dei sindacati rimborsando per ogni 730 dei lavoratori dipendenti inviato dai Caf. Altra entrata, anche se residuale rispetto alle altre, è infine rappresentata dal tesseramento, che grazie ad un meccanismo borbonico rende particolarmente difficile, se non addirittura impossibile, la revoca. Incredibile ma vero, persino l’aumento delle pensioni minime a un milione ha comportato un aumento delle provvigioni a pratica, alla faccia del governo Berlusconi che affama i poveri vecchi. Proprio così: lo sforzo del governo d’innalzare a un milione di vecchie lire gli assegni previdenziali più poveri ha permesso ai “furbi” sindacati dei lavoratori e di alcune categorie di imprenditori, di incassare un bel “gruzzoletto” di commissioni. Le provvigioni dell’Inps ai Caf sono passate da 16.500 a 21mila vecchie lire per ogni pratica spedita via Internet.
A parere delle organizzazioni sindacali, i Caf non sono fonte di reddito, cosa di per sé già poco credibile: è certo, però, che attraverso questi centri i sindacati mantengono rapporti con i propri iscritti a spese dell’Inps e, quindi, con soldi che escono dalle tasche dei contribuenti. Ma se il contributo statale ai partiti non manca di suscitare sdegno, il finanziamento pubblico ai sindacati, attraverso l’escamotage dei patronati, sembra passare inosservato ai più. Quando, nel gennaio 2000, la Corte costituzionale bocciò 7 dei complessivi 21 referendum proposti dai radicali, tra i quali proprio quello relativo ai Caf, le motivazioni addotte per bocciarli furono definite da più parti bizzarre, paradossali, persino “acrobatiche”. Nella fattispecie, in base alla motivazione redatta da Gustavo Zagrebelski per respingere il quesito sul finanziamento agli istituti sindacali di patronato, i patronati svolgerebbero un servizio pubblico garantito dalla Costituzione. Per dimostrarlo, Zagrebelski si affidava nientemeno che a un decreto legge del 1917. In realtà, la Costituzione non dice che debbano essere Cgil, Cisl e Uil a ricevere soldi dallo Stato per aiutare lavoratori e pensionati nelle loro pratiche, ma, secondo la motivazione, «il fatto di essere oggi (i patronati) emanazioni di associazioni di lavoratori non impedisce che in tali istituti continui ad essere presente una connotazione pubblicistica». Secondo la Costituzione, l’assistenza rientra fra i compiti statali, ma attraverso «organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato». “Integrati”, ecco la parolina magica che ha messo la macchina dei patronati al riparo da ogni rischio di confronto con l’opinione pubblica.
IL BUSINESS-MONOPOLIO DEL MODELLO 730
Le tre sigle che compongono la Triplice, infatti, rappresentano autentici leader di mercato nel settore, che risulta quasi interamente sotto il controllo dei sindacati. Questi ultimi, infatti, hanno ottenuto, grazie ad un decreto legislativo del 28 dicembre 1998, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 20 gennaio 1999, l’esclusiva di fatto sulle dichiarazioni dei redditi dei lavoratori dipendenti. Il quesito referendario andava ben oltre, e mirava alla completa abolizione del finanziamento pubblico dei patronati, il quale già all’epoca garantiva alle organizzazioni legate alle confederazioni sindacali entrate superiori ai 300 miliardi di lire.
Ma sono soprattutto i Caf, nati nel 1993, a rappresentare un’autentica “gallina dalle uova d’oro” per i sindacati confederali. Basti pensare che dal milione di 730 verificati nel 1994 si era passati, nel 1999, a 8 milioni. La situazione suscitò le proteste del consiglio nazionale dei dottori commercialisti iscritti agli albi, del sindacato dei dottori commercialisti, ma anche del consiglio nazionale dei ragionieri e dalla Confartigianato. E in effetti, l’authority antitrust presieduta da Giuseppe Tesauro sentenziò che i Caf rappresentavano un autentico monopolio poiché operano in un regime di legge che «restringe ingiustificatamente la concorrenza e il libero mercato», assicurando loro, per via legislativa, “una competenza esclusiva” per lo svolgimento di alcune attività, segnatamente la verifica della conformità dei dati indicati nei modelli 730, con il rischio di una progressiva uscita dei professionisti dal libero mercato, soprattutto dei piccoli studi, particolarmente attivi nell’assistenza sui modelli 730 (circa otto milioni di dichiarazioni dei redditi). Inoltre molti esponenti di Cgil, Cisl, Uil siedono nei Civ (Comitati di indirizzo e vigilanza) dei quattro enti previdenziali pubblici Inps, Inpdap, Inail e Ipsema, che gestiscono insieme circa 500mila miliardi di vecchie lire di risorse l’anno, di cui 300mila miliardi l’Inps e 100mila l’Inpdap. In Alitalia, azienda leader nei buchi neri e nelle gestioni allegre, ci sono fior di consiglieri di amministrazione in rappresentanza dei sindacati Cisl, Cgil e Uil che hanno inoltre poltrone in altre società ed enti economici di grande rilievo nazionale. Risultati ottenuti ad oggi? Soltanto il licenziamento del povero Tremonti!
NE AVETE GIÀ ABBASTANZA? È SOLO L’INIZIO
Ne avete abbastanza? Ma se questa è solo la prima puntata, manca ancora la torta della formazione, altro fiore all’occhiello della Triplice. E poi tocca a tutti agli altri, visto che non facciamo sconti a nessuno in questo viaggio al termine della rendita: Confindustria, associazioni di categoria, ma anche banche e quella vera voragine di spreco che è la farmaceutica. A presto.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!