
Il progresso spezzato dell’islam
Nella sua Lettera a un kamikaze lei ha scritto che «il kamikaze non si sente iscritto nel destino della storia, si sente estraneo a se stesso e al mondo». Eppure i cosiddetti martiri ci fanno sapere che loro hanno ben presente il destino, la meta della storia: lo chiamano Califfato universale, o dominio dell’islam sul mondo, o coincidenza fra Dar al Islam e mondo. Il loro sacrificio avrebbe proprio il senso di accelerare l’avvento del “destino” del mondo e dunque sarebbe un atto progressista.
Bisogna capire che il fenomeno kamikaze si situa all’interno della storia di lungo periodo della relazione fra islam e Occidente, in particolar modo durante tutto il Novecento. È nel corso del Novecento che il mondo musulmano interiorizza il disagio nei confronti dell’Occidente. La storia del Novecento è la storia di un’asimmetria tra Occidente e islam che non soltanto la politica, ma anche la letteratura araba e islamica contemporanea hanno utilizzato quasi come un leit motiv: cioè la tematica del ritardo, del perché non siamo più quelli dei tempi del califfato di Cordoba o di Baghdad. Questo mondo musulmano che sublima il suo passato non arriva più a produrre qualcosa che storicamente gli permetta di ristabilire una simmetria fra islam e Occidente. Il fenomeno kamikaze è la risultante diretta e indiretta di questa patologia, di questa interiorizzazione del disagio del mondo musulmano nella sua relazione con l’Occidente. Ecco perché nel libro ho scritto che il kamikaze si sente espulso dai processi storici mondiali. Nel discorso del radicalismo islamico, l’idea di un Califfato universale che domina tutto il mondo è un processo di costruzione ideologica staccata da ciò che è stata la realtà storica e politica del mondo musulmano. È un po’ la falsa coscienza dell’islam, questa. Si nota bene in Cavalieri sotto la bandiera del Profeta, il libro di Ayman al-Zawahiri, il vice di Bin Laden: loro annullano completamente l’idea di storia come elemento di realtà fondante della società, costruiscono un’altra storia, ma non è più la storia. È una specie di meta-storia.
I temi dello sradicamento, della crisi d’identità, del venir meno dell’appartenenza comunitaria sono comuni a tutte le società che hanno attraversato processi di modernizzazione. Perché solo presso i popoli islamici la crisi provoca delle reazioni politiche e umane così forti?
Nell’islam contemporaneo è in atto una crisi profonda che io definisco “crisi dell’acculturazione dei modelli”. Il mondo musulmano vive il dramma di un mondo che non c’è più, vale a dire che l’islam dei nostri genitori o è già scomparso, o tende a scomparire sotto l’effetto dell’omologazione culturale e dell’alfabetizzazione delle grandi masse del mondo musulmano, che fa sì che i ragazzi accedano direttamente senza mediazione al “sapere musulmano”. Si è spaccato il rapporto fra identità religiosa e cultura. Cosa intendo dire? Che un’identità religiosa non può consistere soltanto in un corpus di testi, nel nostro caso il Corano, gli hadith del profeta, le interpretazioni delle scuole di diritto. Un’identità religiosa si incarna in un corpo, un corpo variegato a seconda delle aree geografiche e dei segmenti storici che l’hanno attraversato, dal Marocco all’Indonesia. Tutto questo mondo islamico, variegato in base all’appartenenza culturale e anche linguistica, interpretava il codice religioso. La modernizzazione, l’esodo rurale verso le grandi città, ha fatto venir meno l’apparato culturale che interpretava, che mediava, che equilibrava la relazione fra identità del testo sacro e sua interpretazione al corpo sociale. La fine della cultura ha fatto sì che l’islam si ritrovasse in un certo senso faccia a faccia con se stesso, vale a dire un puro sistema di testi. Il divorzio fra cultura e rivelazione ha fatto sì che l’islam diventasse una specie di regolamento, di codice della strada, dove la definizione di che cosa è musulmano passa unicamente attraverso il puro e l’impuro, il diritto e il divieto, la definizione dello statuto del buon musulmano soltanto attraverso ciò che dice il testo. Ed è per questo che ad esempio praticamente tutta la letteratura islamica contemporanea è basata soltanto sulla relazione fra diritto ed etica. Quando noi andiamo a cercare i fondamenti spirituali, culturali, i testi sono completamente silenziosi o assolutamente poveri. Per questo i giovani musulmani oggi non vanno a cercare l’essenza della loro spiritualità nella grande tradizione filosofica e mistica dell’islam, ma definiscono se stessi in base a codici simbolici che sono il velo, la barba, una ritualità schizofrenica rispetto al resto della vita, eccetera. E se la crisi è ancora più grave, attraverso il passaggio ad un atteggiamento di tipo sovversivo/eversivo e dunque al terrorismo islamico. Questo significa che il grande problema dell’islam oggi è che deve riformulare i suoi vettori portanti. E i vettori portanti li dà la cultura, soltanto la cultura. La società deve fare uno sforzo enorme per reinventare un modello culturale, con i suoi filosofi, storici, scrittori, eccetera, ma per costruire questo ci vorranno anni. In assenza di ciò, abbiamo l’interpretazione etico-giuridica dei testi, il diritto, che sostituiscono completamente ciò che dovrebbe essere la civiltà islamica.
John Gray ha scritto cose interessanti su come Al Qaeda e gli altri gruppi terroristi islamici coniugano a modo loro elementi della modernità ed elementi della società pre-moderna. La modernità degli strumenti finanziari, delle tecnologie militari, della comunicazione da una parte, l’idea poi che la politica ha tutte le risposte a tutti i problemi, che è un’altra idea moderna, e dall’altra parte gli elementi pre-moderni: il modello della famiglia estesa, la funzionalità dell’individuo alla comunità, la chiusura del gruppo su se stesso… Quanto è forte la seduzione di questo tipo di modernizzazione fra i musulmani?
Più che di coniugazione fra moderno e pre-moderno si tratta di una strategia ben precisa non soltanto del terrorismo ma di tutto il radicalismo islamico di questi ultimi dieci-quindici anni. L’utilizzo di strumenti tecnologici, dell’informatica, di Internet e di tantissime altre cose permette loro di perseguire due obiettivi. Il primo, ovviamente, è quello di sfuggire al controllo dello Stato e delle autorità religiose istituzionali: il sapere islamico attraverso Internet sfugge ai tradizionali vettori di trasmissione del sapere, che sono le università di Al Azhar (Egitto), di Zaituna (Tunisia) e di Al Qarawiyine (Marocco); il rettangolo dello schermo del computer funge da madrassa. Questo utilizzo della tecnologia permette loro non solo di rendersi completamente autonomi nei confronti dei gestori tradizionali del sacro nell’islam e di costruire un modello di islam sovversivo, ma anche di creare una comunità, una umma virtuale che unisce i musulmani da Giacarta a Marsiglia. Però c’è un altro aspetto da considerare: il fatto che migliaia di musulmani si connettano o chattino via Internet significa necessariamente, che loro lo vogliano o no, che si definiscono all’interno di una società già atomizzata. Cioè non comunicano più secondo le vecchie solidarietà di tipo clanico-tribale, perché il mondo clanico-tribale è scomparso, non c’è più. Al posto della relazione con l’islam della tribù c’è la relazione in rete via computer. E questo, alla lunga, cambia totalmente non soltanto la morfologia del gruppo, ma la relazione psicologica che s’instaura tra un musulmano e l’altro.
E allora possiamo dire che l’uso del computer definisce una strategia, ma mantiene intatta la schizofrenia della relazione fra islam e modernità.
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