
Il miracolo della strada
Don Bruno De Blasio è entrato in seminario (prima a Seveso poi a Venegono) a 11 anni e ha ricevuto la consacrazione a prete nel 1943.
Dal 1965 al 2001 è stato parroco nella chiesa di San Nicola, nel popolare rione milanese di Dergano. La sua, come quella di tanti preti di una volta, è stata una vita spesa nella normalità del quotidiano, tra la parrocchia e l’oratorio, a fare catechismo e a celebrare battesimi, matrimoni e funerali; in mezzo al popolo, a condividere i problemi della gente e a educare bambini; tra i giovani, a inventare scuole, opere di carità e una comunità dove almeno un paio di generazioni di “derganesi” hanno avuto un punto di riferimento sicuro per imparare le ragioni e il fascino dell’ideale cristiano. Se lo vai a cercare anche oggi, don Bruno, non lo troverai certo in casa, come non lo abbiamo trovato noi. Perché anche oggi, come ogni giorno, don Bruno è in chiesa, a ricevere nel suo studio e a confessare.
Don Bruno, cosa vuol dire fare il “parroco”?
“Cosa vuol dire” l’ho imparato da don Giussani (il fondatore e leader di Comunione e Liberazione ndr), fin da quando, negli anni Cinquanta, ero assistente delle Acli e uno dei primi dodici missionari del lavoro che il cardinale Schuster aveva scelto nel clero milanese. Mi ricordo che allora, a un certo raduno con i preti aclisti, dissi una frase che colpì molto i miei superiori. Dissi che «bisogna stare attenti a non fare il mestiere del prete, ma a fare il testimone di Cristo!». Era quello che io avevo cominciato ad imparare da don Giussani e per me è stato questo il criterio con cui ho fatto il parroco.
Come vi siete conosciuti, lei e don Giussani?
In seminario. Ho due anni più di lui. Io sono del ’20, lui del ’22. Sono stato anche decano della sua classe quando Giussani era in prima liceo e io ero in terza, perché avevo chiesto al vice rettore di allora di non farmi “aiuto sacrestano” di un mio compagno, che poi è diventato vescovo di Cremona, con cui non andavo d’accordo. Allora il rettore mi diede il compito di far da decano della classe di don Giussani. Poi, da prete, sono stato a Desio per dieci anni, dal ‘49 al ‘59 e lì ho conosciuto la sua famiglia, suo papà, sua mamma, le sue sorelle e suo fratello. In seminario sapevano tutti che Giussani era “l’invincibile primo della classe”. Ma non ho avuto rapporti educativi con lui in seminaro. Li ho avuti dopo, quando nel ’59 ho lasciato Desio e sono venuto a Milano. è qui che Giussani mi invitò a coinvolgermi con il nascente gruppo dei Giovani Lavoratori di cui era presidente Elio Sermoneta. è così che imparando da loro sono diventato il sacerdote che don Gussani aveva indicato come utile al movimento. E ho imparato che cosa vuol dire vivere la comunità, proprio con la prima esperienza che ho fatto con i Gl (analogo negli ambienti di lavoro del movimento Gioventù Studentesca, poi entrambi riassunti sotto la sigla “Cl”, ndr). Dopo il ’65, avendo vissuto più tempo con i giovani lavoratori che nel mio compito di assistente diocesano degli artigiani cristiani, mi fecero parroco. A proposito di quell’associazione di artigiani di cui mi avevano nominato assistente, ricordo di essere andato da Montini, allora arcivescovo di Milano, dicendogli che mi pareva che fosse più importante che diventassero cristiani gli artigiani, prima di fare l’Associazione degli Artigiani Cristiani. Fu una delle occasioni in cui credo di aver perso dei colpi agli occhi del Vescovo. Come d’altronde mi accadde all’esame per diventare parroco – allora c’era l’abitudine di fare il concorso –: Montini mi vide in aula ed ebbe una reazione strana, perché proprio non immaginava che uno come me che aveva già un compito da assitente diocesano preferisse diventare parroco…
Scusi, mi sta dicendo che un tempo anche per diventare parroci bisognava vincere un concorso?
Negli anni Sessanta non era già più un vero e proprio concorso, ma una specie di esame di idoneità. Però fino agli anni Cinquanta, c’era proprio il concorso alle destinazioni. Ci sono stati contenziosi che sono stati portati perfino in Vaticano, perché qualcuno non era stato mandato nella parrocchia per cui aveva vinto.
Dunque sono diventato parroco. Diventato Papa Montini, diventa vescovo di Milano Giovanni Colombo il quale nel’ 65 mi mandò qui a Dergano dove sono rimasto fino al 2001…
E da allora lei si è concentrato nel lavoro in parrocchia…
Guardi che io non ho mai avuto l’intenzione di fare la parrocchia, a me interessavano i parrocchiani, non le strutture. Non ho fatto nessuna iniziativa mia. Ho cercato di condividere e valorizzare le invenzioni e le proposte dei laici con i quali ho condiviso la vita comunitaria. Questo è stato il mio criterio di parroco, e questo ho portato avanti come ho potuto. Ho lasciato della gente che amava la propria vita da vivere non in funzione dell’organizzazione, pur utile e necessaria della parrocchia, ma nel loro ambiente, nella loro professione. E questi sono diventati uomini, gente di opere e di testimonianza cristiana nella società, come Ivan Guizzardi, Emilio Roda, Marco Bersanelli, Marco Lucchini, Claudio Del Bianco, il prete Massimo Cenci, ora in Vaticano come collaboratore di monsignor Sepe, Giuliano Frigeni, che adesso è vescovo di Parentin, in Brasile…
Anche loro qui hanno vissuto una vita per la loro crescita, per la loro maturità, la concezione più radicale di cos’è la missione, cosa vuol dire portare l’annuncio di Cristo.
Casi di preti in crisi ne ha avuti nella sua parrocchia?
Sì, due sacerdoti che mi sono stati mandati come coadiutori: uno aveva una tipografia dove stampava banconote false, ed è finito in galera per tre anni; e un altro, che non mi sopportava tanto perché non voleva avere guide, che ha cambiato parrocchia e dove è andato si è innamorato di una ragazza dell’oratorio e l’ha sposata.
Forse la crisi di vocazioni deriva anche dal fatto che un tempo il prete viveva in un contesto sociale che, diciamo così, oltre al “potere sacrale”, gli riconosceva anche una sorta di autorità civile. Adesso, oltre a essere preso di mira da una cultura dominante che tende a marginalizzare la sua figura, il prete non ha più né potere, né status sociale se non quello, forse, di un vago e astratto richiamo moralistico. Dev’essere ben dura essere preti oggi. Come si fa?
Il prete deve presentare la propria vita, non il proprio programma, deve condividere con la gente la propria giornata. E poi, visto i tempi che corrono, deve potersi sostenere in una vita comunitaria
non per chiudersi in un ghetto, ma per essere allenato a una modalità di rapporti da trasferire a tutto il resto del mondo.
Uno apre il giornale e legge che un giorno c’è il prete che copre l’altare di bandiere arcobaleno, un altro c’è quello sdraiato sui binari a protestare contro le discariche, un altro ancora c’è quello che vuol fare l’assessore alla Provincia di Milano. Cosa ne pensa di quest’ansia di protagonismo?
Penso che così il prete entra in un compito che non è il suo. Si impoverisce dei fattori del suo messaggio. Trasferisce al popolo soltanto criteri, politici, sociali, sindacali… Anch’io da giovane, prima di essere parroco, ero uno molto legato ai sindacati, alla politica. Ho collaborato alla Democrazia Cristiana e ho aiutato la nascita della Cisl all’epoca in cui alcuni sindacalisti cattolici si staccarono dalla comunista Cgil. Ho fatto comizi per le elezioni del ’48 e ho avuto anche grandi soddisfazioni, perché dove andavo la Dc raggiungeva percentuali singolari. Allora ero ad Agrate – dove sono stato dal ‘43 al ‘49 – e ho iscritto tutti i miei giovani alle Acli, alla Cisl e alla Dc.
Tutto questo però non era il primo ideale, perché il primo ideale è la radice, il punto di partenza, è portare Cristo. Perciò io dico, attenzione a non impoverirsi del compito missionario. Se la politica e l’azione sociale diventano una militanza fine a se stessa e io quindi non insegno il motivo per cui mi interesso anche di tutte queste altre cose, a che serve il mio essere prete?
Qual è, dal suo punto di vista di sacerdote di lungo corso, la situazione della Chiesa oggi?
Oggi si crede che le caratteristiche dell’istituzione ecclesiastica siano il territorio, il rapporto con il potere locale, la buona amministrazione…
E invece il prete deve avere la coscienza della sua vita, deve trasmettere quello che serve a lui per fare il prete. Il prete deve avere la coscienza di chi è lui, non di che cosa è capace di fare o del suo peso sociale.
A che età lei è entrato in seminario?
A undici anni. Allora si cominciava dopo le elementari. Io sono antrato nel 1931. Della mia classe siamo entrati in centocinquanta, divisi in tre sezioni: A B, C. C’erano le scuole di cinquanta alunni nella stessa aula e io sono sempre stato nella sezione B perché De Biasio era già nella sezione B. Al liceo sono passato da Seveso a Venegono ed ho avuto tanta riconoscenza per i personaggi umani che ho incontrato, che hanno captato la mia affezione per la loro affezione, e che avevano più il sapore umano che il sapore dell’educatore.
Oggi l’impressione è che nei seminari non imparino neanche che cos’è la Chiesa. I preti di oggi hanno magari delle doti naturali molto apprezzabili, sono socievoli, rispettosi delle posizioni degli altri, ma è come se non fossero una proposta viva nei confronti della vita.
Don Gianni Baget Bozzo ha scritto un libro che, tra l’altro, contiene una serrata critica al concetto linguistico di “Popolo di Dio” per indicare la Chiesa…
Guardi, il concetto di “Popolo di Dio” non ha senso. O è sinonimo di Chiesa come “corpo di Cristo”, o altrimenti può essere soltanto spiritualismo.
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