Che tortura leggere Repubblica e Corriere

Di Tempi
13 Maggio 2004
Una volta era tutto più logico.

Una volta era tutto più logico. Quando la Fiat era la Fiat e Furio Colombo era il suo agente miliardario a New York, la classe operaia veniva presa per i fondelli con un quotidiano d’Ottone che per aprire le fabbriche del padrone a Stalingrado volentieri vedeva solo Vietnam e raccontava che Solzenicyn era un po’ della Cia e quelli torturati nei Gulag (una ventina di milioni, gente che alle vignette del ragionier Giannelli adesso piace riderci sopra) il sacrificio necessario ai futuri industriali e progressivi dell’Urss.
Una volta, quando Carlo De Benedetti era l’Olivetti e Tiziano Terzani era il fantastico simbolo degli inviati speciali in Medio ed Estremo Oriente, era logico farsi portare sui luoghi dei massacri dei khmer rossi e poi scrivere che erano tutte messe in scena della Cia («e perciò quelle foto non ve le facciamo mica vedere, perché non siamo mica al servizio dell’imperialismo, noi che la sera andavamo in via Veneto»).
Infatti, cabrones, era logico, essendo voi al servizio degli affari e del partito comunista morale, che esistessero solo i Pinochet e i desaparecidos argentini. Di quelle foto, di Allende e del Che, di Santiago e del banditismo tupamaro travestito da eroismo risorgimentale italiano, ne vedemmo tante. Come abbiamo visto e continuano a farci rivedere le foto della prigione Abu Ghraib (ma non quelle delle prigioni di L’Avana, Pyongyang, Hanoi, Damasco, Teheran, Karthoum eccetera), diffuse non dall’eroico reporter che sfidando la censura e il rischio di una pallottola in testa (come i due giornalisti, un polacco e un algerino, assassinati a Baghdad, un posto dove i resistenti irakeni tanto amati da quelli italiani si alzano al mattino presto, dicono le preghiere e poi escono in cerca di qualcuno, non importa se occidentale o irakeno, da squartare, far saltare per aria o riempire di piombo, così, tanto per fare un po’ di jogging), ma dalle stesse autorità americane che si apprestano a processare i loro soldati che hanno tradito l’onore e la bandiera americani.
L’indignazione morale dei grandi media italiani avrebbe avuto un po’ di verità se avesse collocato nella storia il male compiuto da un’infima minoranza di soldati, se l’avesse trattata come «una vicenda vergognosa da circoscrivere con misure marziali» (Foglio rosa) e non fuori dalla realtà, come ennesima occasione di indignazione morale, da bassa cucina politica anti-Bush, da imbianchini e attacchini del manifesto prodiano euroforzapacifistico. Quelle foto avrebbero un po’ di verità se non servissero, da una parte allo zapaterismo elettoralistico della sinistra strasburghese (è il leit motiv delle “bugie”, slogan coniato nel corso del “golpino” di Madrid, vedi qui il servizio a pagina 6, e affittato dall’Ulivo per le europee in Italia), dall’altra alla ben più importante campagna elettorale planetaria che si gioca nelle presidenziali americane. In entrambi i casi è una bella sfida al ridicolo quella sferrata da certi direttori che se la fanno addosso davanti al Cdr sindacale, però si sentono di avere un coraggio da Economist chiedendo le dimissioni di un ministro della Difesa americano… (e certo che Rumsfeld si deve dimettere! Forse che non si dimise quel ministro dell’Ulivo all’epoca delle torture – pardon, “delle goliardate” come le definì l’allora nostro ministro della Difesa – dei soldati italiani in Somalia? E non hanno forse cambiato mestiere tutti i reporter democratici che si sono pentiti di avere raccontato balle sulla Cambogia, sul terrorismo delle Br, sui dissidenti in Urss?). Cabrones, continuate a raccontare la vostra indignazione morale agli studenti delle scuole elementari statali e ai pacifisti agnolettiani. Continuate a fare gli sfessati, che se ci sono di mezzo gli affari del padrone, le foto (come quelle dello sfascio Alitalia nascoste sotto il tappetino, almeno fino al 13 giugno) restano nelle celle frigorifere.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.