Uomini senza futuro

Di Arrigoni Gianluca
22 Gennaio 2004
Un mondo di perenni insoddisfatti che si atteggiano a vittime e vivono solo nel presente. La proliferazione dei diritti individuali ha distrutto senso di appartenenza e idea di progresso. Intervista a Paul Thibaud, che diresse “Esprit”

Monsieur Thibaud, lei ha espresso preoccupazione per la tendenziale prevalenza, nelle nostre società, del paradigma dei diritti dell’uomo rispetto alla capacità di elaborare un progetto politico collettivo. Cosa intende dire?

Quello che mi preoccupa è il fatto che il paradigma dei diritti dell’uomo deresponsabilizza le persone e le incita a identificarsi solamente in ciò che possono reclamare per sé e non in un progetto collettivo. Il risultato paradossale è che, mentre le ideologie politiche sono in declino e le differenze fra i vari progetti politici si fanno impalpabili, la società diventa sempre più conflittuale e insoddisfatta. Si dice che i diritti dell’uomo sono un valore comune ma non è così, perché non obbligano nessuno a niente. Ognuno rivendica per se stesso, e questo non fa una società, un insieme. Inoltre i diritti umani hanno intrinsecamente la tendenza a separarsi dalla responsabilità politica e a diventare sovranazionali, attraverso le dichiarazioni europee e universali dei diritti dell’uomo e con il sostegno dei tribunali che li applicano e che assumono un’importanza sempre maggiore. Tutto questo produce una degradazione del senso civico, una degradazione del sentimento di dovere qualcosa, ed è questo il problema. Si tratta di un processo che già Tocqueville aveva perfettamente descritto, anche se il suo timore era soprattutto che gli individui isolati si sarebbero rivolti verso la collettività, in adorazione di uno Stato tutelare che si sarebbe occupato di tutto a causa della debolezza degli individui.

Non aveva completamente torto.

Aveva in parte torto, perché oggi, più che di fronte ad un asservimento degli individui allo Stato, ci troviamo di fronte ad uno Stato che deve rispondere ad individui sempre più insoddisfatti. Quello che Tocqueville non aveva previsto è questa specie di aggressività dell’individuo non-cittadino verso lo Stato. Il risultato è diverso da quello che Tocqueville temeva. Probabilmente l’evoluzione politica che ha causato la svolta rispetto ai timori di Tocqueville è avvenuta con le guerre e i totalitarismi del XX secolo, che hanno reso lo Stato sospetto, e non più un ricorso simbolico.

E anche qui è difficile dare torto a chi si è fatto sospettoso.

Ci si dimentica però che lo Stato a qualcosa è servito. Le riflessioni di Tocqueville avvengono in un periodo durante il quale vi era una naturale e spontanea fiducia nello Stato, mentre ora ad essere naturale e spontanea è la diffidenza. Ma la sua descrizione del processo individualista è valida ancora oggi.

A cosa è dovuta la forza del paradigma dei diritti umani? Al loro contenuto morale?

Sì, soprattutto al fatto che richiedono allo Stato di essere morale. In passato si pensava che gli individui dovessero essere morali, mentre gli Stati avevano diritto ad un certo cinismo, al fine di assicurare la salvaguardia dell’ordine pubblico, dell’identità nazionale e così via, fino al diritto di fare la guerra. Oggi è il contrario: l’individuo ha diritto al più assoluto cinismo, per esempio ha il “diritto” di abbandonare i suoi figli. Ma lo Stato no, ha tutti i doveri. Quando dei bambini sono abbandonati, il riflesso spontaneo non è quello di chiamare in causa la responsabilità dei genitori, perché nelle ragioni degli altri non ci si deve intromettere, ma quella dello Stato. Gli individui fanno quello che vogliono o quello che possono, ma in ogni caso, per riparare i danni, viene considerato necessario un intervento dello Stato. Se così non avvenisse lo Stato sarebbe considerato moralmente responsabile.
Prenda, per esempio, l’adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale. Sono in molti a considerarla un diritto che la società dovrebbe soddisfare, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’educazione del bambino. Questo dimostra la mancanza di riflessione o, peggio, il desiderio di non riflettere per evitare di scontrarsi con una contraddizione tra l’eventuale interesse del bambino e i “diritti” dei “genitori”. Questo tipo di contraddizioni non sono una novità, ma il problema è che non le si vogliono vedere.

Lei considera il paradigma dei diritti dell’uomo e la capacità di elaborare un progetto politico collettivo come due realtà radicalmente opposte?

Tra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino c’è compatibilità. Si potrebbe anche dire che, storicamente, i diritti dell’uomo derivano dai diritti del cittadino, almeno per quanto riguarda la storia della democrazia in Francia. Se il popolo è sovrano, e ha quindi diritto al voto, per esercitare questo diritto sarà necessario sviluppare la propria libertà di giudizio, e questo implica la necessità della libertà d’informazione e di educazione: sono funzionali all’esercizio della sovranità. Si può dire quindi che, almeno teoricamente, i diritti dell’uomo sono un mezzo per esercitare la propria sovranità. La libertà di coscienza, d’espressione, di riunione, di associazione, la libertà di stampa, ci permettono di essere dei cittadini. Il problema è la separazione, avvenuta soprattutto nel corso del XX secolo, tra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino.
Il sistema classico della democrazia repubblicana si fondava su di una forte coscienza nazionale che serviva come regolatore dell’insieme: se si ha una forte coscienza nazionale e le persone hanno il senso del dovere nei confronti dell’insieme, le libertà personali saranno regolate, compensate. Evidentemente, se si elimina questa compensazione, com’è il caso nella maggior parte dei paesi europei, si ottengono dei regimi politici patologici.

Perché si è perso il senso del bene comune, dell’interesse collettivo.

Sì. Quindi non si riesce a riformare, anche se le riforme sono necessarie per far funzionare l’insieme. Ed è paradossale perché, anche dal punto di vista “egoista” dell’individuo, il suo interesse sarebbe quello di un sistema che funziona il meglio possibile, per un costo ragionevole e sostenibile. è una questione di buon senso e teoricamente tutti sono d’accordo, ma quando si chiede alle stesse persone di fare i sacrifici o i compromessi necessari, allora tutto si blocca, perché tra l’individuo che deve fare delle concessioni e quello che beneficierà di un sistema più efficace e di una società meglio organizzata c’è un passaggio obbligato: il sentimento collettivo. Come diceva Rousseau, siamo sia sudditi che cittadini, ma perché avvenga il passaggio da suddito a cittadino è necessario un sentimento di appartenenza collettivo. Se non si è capaci di fare dei sacrifici, che siano simbolici o reali, si può desiderare una società che funzioni meglio, ma non la si avrà. L’esasperazione dei diritti individuali porta a questo: la compresenza di desiderio di una società migliore e di asocialità nei fatti: è questo che mi preoccupa.

Lei ha scritto che nei diritti umani si vede soprattutto il “male”, e nella capacità di elaborare un progetto politico collettivo il “bene”.

Volevo dire che la sottolineatura dei diritti umani implica il rafforzamento del diritto penale, che è frutto di una preoccupazione per un male che si vuole evitare, mentre un progetto politico collettivo è soprattutto un bene da costruire. è evidente che non si può costruire una società basandosi principalmente sul diritto penale. Così si finisce per spingere i cittadini a concepirsi come vittime perché non si ha tutto quello di cui, idealmente, si potrebbe disporre. Quindi si generano frustrazione e insoddisfazione per quelli che si suppone siano dei diritti negati. Ma se ci si concepisce soltanto attraverso il diritto e le rivendicazioni che ne derivano, penali o civili, non può che perdersi l’idea di un progetto politico comune.

Cosa pensa della logica che dissolve le responsabilità personali e giustifica nello stesso tempo la pretesa di veder realizzato nell’immediato ogni desiderio?

E’ una pretesa che fa parte della natura umana, non possiamo farci niente. Il problema è che l’altra dimensione, quella della responsabilità, non esiste più. Questo tipo di desideri è come il capitalismo: fa parte della natura umana, è la sua forza ma presenta un’intrinseca debolezza: il mercato non vive che nel presente, in un sistema di regolazione nel quale l’equilibrio, teoricamente, si realizza istantaneamente, mentre l’umanità è essenzialmente rivolta al cambiamento, al progresso, al miglioramento di se stessa. Ma oggi ci troviamo per la prima volta di fronte ad un’umanità interamente risolta nel presente, che non immagina niente di meglio di quello che ha.

Un’umanità che vive solo nel presente perché ci si trova bene o perché non ha un progetto?

Viviamo in un’epoca d’insoddisfazione, di crescente aggressività, è un’umanità che non vive bene nel presente.

Ma è un’insoddisfazione profonda o piuttosto “capricciosa”, di persone che hanno l’abitudine di avere sempre quello che desiderano e quindi vogliono sempre di più?

Entrambe. Un’insoddisfazione “capricciosa” perché non si può avere tutto, ma anche un’insoddisfazione profonda perché l’uomo è un “animale storico”: non è definito da una natura finita ma da un progetto di miglioramento dell’umanità; non solo un miglioramento delle proprie condizioni materiali, ma anche di quelle morali. Il punto importante è la necessità di restaurare l’idea di progresso.

Un’idea di progresso che l’immediatezza del mercato e l’egemonia dei diritti umani non permette.

E’ così. Oggi ci viene chiesto di adattarci agli obblighi che derivano dal mercato, ma non ci viene detto perché questo sia un progresso. Ed è su questo che il cristianesimo deve sentirsi chiamato in causa, perché il cristianesimo è una religione storica, come l’ebraismo, e a differenza di religioni come l’islam o il buddismo. Nel cristianesimo non c’è una sharia da applicare, ci sono le Beatitudini, e non è la stessa cosa. Le Beatitudini dicono che un certo comportamento, per esempio il perdono, o l’avere uno spirito disinteressato, è la porta del regno di Dio, cioè del fine ultimo dell’umanità. Le Beatitudini non sono semplicemente delle cose che bisogna fare perché si è saggi o per rispetto di diritti altrui, ma sono la via della trasformazione dell’umanità, e si può sintetizzare dicendo che l’umanità, grazie al suo progresso morale, si avvicina a Dio.
L’umanità non è fatta per vivere in un immobilismo litigioso, in un’insoddisfazione statica, che è la situazione presente. C’è la necessità di trovare degli “attori” che possano promuovere di nuovo un progresso collettivo e c’è quindi bisogno di un soggetto politico, e qui ritroviamo l’idea di nazione. Ma questo progresso verso il regno di Dio può anche passare semplicemente attraverso la trasformazione del cuore degli uomini.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.