Un sessantottino sui generis, al Veteran (Vietnam) Day

Di Tempi
15 Novembre 2001
Il 10 non ho potuto essere a Roma, e me ne scuso con quelli che c’erano, politici e non. Ma, mentre loro sfilavano, io il 10 ero sul volo United Airlines Milano-Washington, per poter presenziare alle cerimonie del Veteran Day, il giorno dopo, 11 novembre, al Vietnam War Memorial.

Il 10 non ho potuto essere a Roma, e me ne scuso con quelli che c’erano, politici e non. Ma, mentre loro sfilavano, io il 10 ero sul volo United Airlines Milano-Washington, per poter presenziare alle cerimonie del Veteran Day, il giorno dopo, 11 novembre, al Vietnam War Memorial. Inaugurato, con non poco scandalo nel 1982, fu subito ribattezzato “the Wall”, e non solo perché, in effetti, appare come un muro di granito nero sul quale sono iscritti i nomi dei 58132 Caduti americani in quella guerra così sofferta, ma anche perché esso fu ulteriore elemento di divisione fra l’America legata a valori molto solidi e tradizionali, e quella radical-chic di fine anni ’60. Oltre che sofferta, la guerra in Vietnam fu anche tragicamente anomala, perché i politici riuscirono a vanificare la tenacia e l’eroismo dei loro uomini. È innegabile che “the Wall” abbia diviso l’America per anni. Ancora ai primi anni ’90 al Wall ci trovavamo in quattro gatti. No, io in Vietnam non ci sono arrivato, ma ci sono andato vicino. Iscritto all’Università del South Carolina, il 3 giugno 1968 mi arruolavo volontario nel US Army e mi qualificavo paracadutista: c’era una crociata contro il comunismo nel sud-est asiatico, e non volevo mancare alla festa. A Fort Jackson (S.C.), durante l’addestramento basico, venne fuori che io lì, in verde oliva, non dovevo neanche esserci, il visto da studente non me ne dava diritto. Ma gli ideali di allora, quelli non sono mai appassiti e, come allora, il cuore è sempre con i 58132 brothers che hanno dato la vita e i 2324 che il VietNam comunista trattiene ancora in stato di schiavitù, i Missing in Action: una ferita mai rimarginata. Novembre 11, h 8.00 di mattina: benvenuto a casa, perchè il Veteran Day è il giorno del compleanno di tutti. C’è la 173rd paracadutisti, c’è la Americal, ci sono le ausiliarie. Siamo diventati una folla. Tanti giovani come non se ne erano mai visti. E su Constitution Avenue è tutto un gran traffico di pick-up, fuoristrada, berline, tutti con bandiere grandi così. Un rombo di tuono annuncia i Rolling Thunder, l’associazione dei veterani motociclisti, tutti su Harley con gli scarichi aperti che, all’altezza di the Wall, tirano una gran sgasata di saluto. Quando la cerimonia ha inizio, saremo almeno in cinquantamila, mai stati così tanti a mia memoria. Agli accessi al declivio che fronteggia “the Wall”, le Gold Stars, le madri dei caduti, offrono una rosa ad ognuna delle signore. Non so perché, ma è un gesto di una tale intensità di fierezza e di amore che ne vengo sopraffatto. Sono fiero delle mie lacrime e non me ne vergogno: siamo in tanti con gli occhi gonfi, la compagnia è eccellente. Le orazioni sono brevi, intense, si parla delle tragedie di New York e Washington, di chi è stato chiamato a servire nella nuova guerra contro la follia di un fanatismo che si ammanta in modo blasfemo di religione. Ci lasciamo scambiandoci il saluto di sempre: God bless America, ma questa volta si risponde: Amen. Il motto ora è diventato una preghiera, e poi accade l’inatteso: due uomini di spettacolo, il produttore Randall Wallace e l’attore Sam Elliott, nei loro interventi chiedono perdono ai veterani per l’ingiustizia patita da parte anche loro, chiedono perdono per non esserci stati anche loro in verde oliva, nelle risaie del VietNam.

Bruno de Prato

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