Africa fuori dalle tenebre

Di Rodolfo Casadei
12 Luglio 2001
Ieri come oggi, i bianchi vorrebbero salvare l’Africa e liberarla da ogni oppressione. Ma il loro progetto fallisce per eccesso di intellettualismo: il metodo per conoscere l’Africa non è quello delle analisi politiche ed economiche, ma quello dell’avvenimento. Che permette di imbattersi in santi e demoni lungo le strade dell’Africa. Lo racconta un libro-reportage di Rodolfo Casadei, di cui proponiamo l’introduzione

Sulle realtà dell’Africa nera esercitano il loro talento analitico, comunicativo, espressivo molti europei. Scrittori, accademici, giornalisti, fotografi, viaggiatori e militanti di molte cause propongono saggi, romanzi, réportage, diari di viaggio, opuscoli a tesi. I tipi di sapere elaborati, i generi letterari e i media utilizzati sono dunque molto diversificati. Eppure è difficile sfuggire all’impressione che, con rare eccezioni, tutto ciò che dell’Africa viene scritto o proposto in termini di immagini ha in comune uno stesso elemento, che va ben al di là dell’identicità dell’oggetto dell’indagine (l’Africa in uno o in un altro dei suoi aspetti). Si tratta di un elemento metafisico e religioso, che potremmo definire così: un’urgenza etica circa la redimibilità e la possibilità di salvezza dell’Africa. Evidentissima negli interventi di missionari, attivisti di movimenti internazionali, giornalisti e operatori dei media, questa preoccupazione permea anche lavori che si presentano come scientifici di storici, sociologi, antropologi – non sempre con vantaggio per il rigore del loro discorso. Nel tempo questa urgenza ha profondamente mutato il suo segno: nell’epoca della “missione civilizzatrice dell’uomo bianco”, cioè del colonialismo, gli africani dovevano essere redenti e salvati soprattutto da se stessi e dai propri demoni: superstizione, sottosviluppo, istituzioni e costumi barbari come lo schiavismo, l’antropofagia, la poligamia, oltre che dalle endemiche guerre tribali. Oggi, in un clima intellettuale dominato dai riflessi condizionati del terzomondismo, gli orrori e le infelicità di cui l’Africa è vittima vengono sommariamente attribuiti alle responsabilità sia storiche che presenti dell’Occidente e le radici culturali tradizionali sono piuttosto considerate una preziosa risorsa che la modernità sta dissipando. Ma l’esigenza di redenzione e di salvezza esce non meno confermata da questa impostazione, anzi: proprio il fatto che l’Africa sarebbe vittima della malvagità o dell’irresponsabilità altrui rende più urgente la questione della liberazione degli africani da tutto questo.

Gli equivoci dello “sguardo religioso” sull’Africa

Lo sguardo dell’europeo sulla realtà africana continua dunque ad essere fondamentalmente religioso anche in epoca di secolarizzazione avanzata. E questo, alla fine, è forse il motivo per cui i libri che si leggono sull’Africa non sono ultimamente soddisfacenti (mentre i réportage centrati sulle immagini soddisfano soltanto il lato emotivo e sentimentale dell’intelligenza umana, ma non quello razionale): l’analisi culturale, politica, economica, la cronaca e il commento giornalistici non costituiscono la modalità giusta per il tipo di conoscenza che si ricerca. Da una parte sono inadeguati ad esprimere l’approccio religioso, dall’altra finiscono per essere condizionati negativamente da esso. Scadono infatti facilmente nell’esortazione, nella denuncia morale e nelle affermazioni di principio, mentre il lettore vorrebbe soprattutto avere un quadro il più possibile completo dei fatti e delle possibili chiavi di lettura degli stessi. Questo non significa che dobbiamo demonizzare la naturale compassione umana e la speranza sovrumana che ad essa si accompagna. Si tratta, piuttosto, di proporre il metodo conoscitivo e comunicativo “giusto”, nel senso di “più adatto”, cioè quello consono all’aspettativa di tipo religioso che, indipendentemente dalla fede o dall’incredulità personale, gli europei non vogliono eliminare nel loro approccio all’Africa. Ora, il metodo religioso per eccellenza – come ha intuito un grande convertito cattolico quale Charles Peguy e come ha riscoperto un pensatore contemporaneo di origine ebraica ma solidamente laico come Alain Finkielkraut – è il metodo dell’avvenimento. Poiché la salvezza non è un programma – e qui sta il limite di tutte le analisi culturali, politiche ed economiche sull’Africa pervase di furore etico – ma qualcosa che accade imprevedibilmente, qualcosa in cui ci si imbatte, un incontro.

Eroicità quotidiana e banalità del male

Le pagine che seguono sono una raccolta di articoli scritti fra il 1992 e il 2000, frutto di dieci anni di réportage dall’Africa. Sono una galleria di ritratti di personaggi che coincidono con temi caratteristici del mondo africano contemporaneo: vita dei ragazzi di strada, sconvolgimenti causati da guerra e guerriglia, circostanze sociali della malattia (Aids, patologie mentali, visione animista della malattia), terrorismo di matrice islamica, fatica della condizione femminile, conflitto fra modernità e tradizione. I personaggi sono sia africani che europei, con la prevalenza dei primi, mentre i secondi sono costituiti da missionari cristiani e volontari internazionali. C’è Gregoire, ex tipografo beninese emigrato in Costa D’Avorio che ha creato un’opera sociale per riabilitare i malati mentali e liberare quelli incatenati come bestie nei villaggi; c’è Dalia, moglie tutsi di un giovane hutu sposato con molte difficoltà che assiste con amore il marito malato di Aids; ci sono i seminaristi burundesi di Buta, che disobbediscono all’ordine dei guerriglieri di suddividersi in due gruppi, hutu e tutsi, e per questo vengono falciati a colpi di bombe e mitra; c’è suor Rachele Fassera, che si lancia sulle tracce dei guerriglieri ugandesi che hanno rapito 139 studentesse per liberare le sue “figlie”; ci sono gli sconosciuti martiri ruandesi che nei giorni del genocidio hanno rischiato o sacrificato la vita per salvare esseri umani dell’una o dell’altra etnia; c’è Levi, catechista camerunese vittima della meningite e della concezione superstiziosa della malattia; c’è Maria, ragazza samburu vittima delle mutilazioni genitali femminili praticate presso alcune etnie; c’è Matthew Lukwiya, l’eroico medico ugandese che ha organizzato la resistenza dell’ospedale di Gulu contro l’epidemia di Ebola e ha pagato con la vita; ci sono Pierre e Mohamed, l’uno vescovo cattolico di Orano e l’altro suo autista musulmano, uccisi insieme dai terroristi algerini; ci sono le storie dei ragazzi di strada e dei missionari e volontari che annodano con loro un rapporto che non è anzitutto di assistenza, ma di paternità e maternità, e altre ancora. Leggere queste storie è imbattersi nella salvezza e nella dannazione sotto forma di avvenimento. E’ incontrare santi e demoni dell’Africa. E’ incontrare l’oggetto che lo sguardo religioso sull’Africa cercava – sia che si tratti di una religiosità immanente, laica, o della religiosità autenticamente aperta al trascendente.

Campo di battaglia fra Dio e il diavolo

Per chi le ha scritte, queste storie rappresentano il tentativo di rendere comunicabili incontri personali ed esperienze umane accaduti in alcuni momenti dell’esistenza. Ciò che ai suoi occhi le rende meritevoli di essere portate all’attenzione dei lettori è la grandezza umana dei personaggi, la drammaticità delle loro vicende e le rivelazioni che dall’una e dall’altra cosa derivano. La prima e fondamentale rivelazione è che santità e dannazione sono possibilità umane reali: santi e demoni esistono realmente, lungo le strade d’Africa li si incontra in carne ed ossa. La seconda rivelazione è la natura ordinaria delle due condizioni sopra dette: quotidianità dell’eroico e banalità del male ricorrono continuamente. Ciò che nelle varie storie colpisce non è soltanto il continuo ricorrere di contrasti estremi (pietà-orrore, eroicità-infamia, sovrumano-sub-umano), ma una doppia scoperta: la naturalezza dell’eroismo di persone comuni immerse quotidianamente in situazioni estreme e la capacità di eroismo che tante altre persone semplici dimostrano quando improvvisamente sono poste di fronte a situazioni estreme. Ciò, purtroppo, ha un corrispettivo sul versante del male: banale e quotidiano come le credenze superstiziose in materia di malattie e le mutilazioni genitali femminili, capace di coinvolgere le persone comuni quando si manifesta in misura eccezionale come nei massacri in Ruanda e Burundi. L’autore non sarebbe leale nei confronti dei suoi lettori se non esponesse in pochissime parole anche le convinzioni personali che ha maturato attraverso gli incontri, reali o ideali, che qui racconta. Queste si riassumono nella persuasione che il divino è all’opera nella realtà africana attraverso l’azione di esseri umani come Gregoire, Dalia, Rachele, Maurizio, Michael Tansi, Matthew Lukwiya, i martiri di Buta, i martiri ruandesi e innumerevoli altri. Che la natura diabolica del male che affligge il continente va riconosciuta come tale. Che la santità di alcuni africani e non africani rappresenta anche una speranza per l’edificazione di una civiltà africana più accogliente per l’uomo, ma non al prezzo di trasformare in un modello di organizzazione sociale ciò che è essenzialmente avvenimento imprevedibile e frutto di libertà non riducibile a schema. L’autore è persuaso che dell’Africa di oggi si possa dire quello che Dostoevskij scriveva a proposito del cuore umano: è il campo di battaglia fra Dio e il diavolo.

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