Italia, nazione senza tradizione

Di Tempi
01 Dicembre 2000
Viviamo in un periodo di vuoto di cultura che è seguito alla fine della cultura rivoluzionaria

Viviamo in un periodo di vuoto di cultura che è seguito alla fine della cultura rivoluzionaria. La stessa crisi della sinistra italiana mostra quanto profonda sia questa crisi. È singolare che l’Italia sia il solo paese europeo in cui la fine della rivoluzione abbia determinato la crisi politica della sinistra. I socialdemocratici governano l’Europa, ma la socialdemocrazia non è mai esistita in Italia. Per questo la scappatoia socialdemocratica non ha funzionato. La cultura di figura comunista ha, di fatto, dominato sia il mondo cattolico che il mondo laico. Ha cioè avuto un’influenza unica rispetto agli altri paesi europei. È divenuta nella forma gramsciana un vero ethos nazionale. Il fenomeno che investe oggi il mondo europeo è una crisi del senso del vivere sia a livello individuale che a livello sociale. La fine della cultura comunista ha determinato una radicale crisi del senso d’identità, sia personale che sociale. La rivoluzione è una negazione della tradizione e quindi una rottura d’identità: la rivoluzione era divenuta la nuova identità, la cultura del vivere sociale. Finita la rivoluzione la tradizione ricompare, lo si vede nella domanda religiosa che, sul piano individuale, è divenuta forte e consistente. La scelta religiosa individuale è “alla carta”, cioè un’opzione variabile che risolve solo il problema individuale; non è facile che l’identità religiosa divenga un’identità culturale se non per minoranze. Ed in questo non si configura come identità generale, è un’identità di gruppo, anch’essa variabile come le scelte individuali. Ciò che è perduto è il senso di un’identità culturale civile: quello che, a partire dalla Rivoluzione francese e dall’idealismo tedesco, divenne la nazione. Oggi abbiamo strutture nazionali, ma il pensiero della nazione non le abita più. Si deve dire che l’identità delle nazioni è finita con la fine della rivoluzione, che oggi non abbiamo più identità sociale globale, che quindi la nazione non corrisponde più a nulla di vitale nella coscienza delle persone? Se si perde il file della memoria di una storia comune, tutto il vivere civile diviene puramente esteriore al singolo, un mero dato. E ciò aumenta certamente il senso dell’angoscia e della frustrazione individuale. La storia che si vive diviene un non senso. Ciò può essere chiamato nichilismo sociale, intendo per nichilismo l’affermazione che la vita sociale non ha senso perché è un mero dato. In politica questo problema emerge. Se ne è reso conto il presidente della Repubblica, che appunto cerca di ridare valore al concetto di nazione e di patria. E del resto la questione dei libri di testo, pur posta in modo francamente eccessivo, mostra che AN ha avuto il senso del problema nazionale. Sembra ovvio, ma la cultura di destra dopo la seconda guerra mondiale era una critica dell’Occidente, non la ripresa del senso nazionale. Questo è un problema per il centro destra e per la sua politica dell’educazione. Può essere semplicemente informazione, inglese, informatica come anche Berlusconi dice? O non deve essere una riscoperta della memoria storica della nazione Italia e della civiltà di cui è espressione? E del resto possiamo sentire un’identità europea se non sentiamo una identità nazionale? Infine la civiltà europea è stata costruita sulla base delle nazioni. Possiamo avere immigranti di altra cultura e di metterli nella vita della società senza offrire loro una storia del popolo in cui vivono? La memoria della nazione è un presupposto delle politiche ma nulla è fatto perché essa diventi un ethos. L’alternativa alla fine della Rivoluzione è la scoperta di una tradizione. Il centro destra giunge al potere come espressione di un cambio culturale nella società, ma non si pone ancora come cambiamento culturale. E questi sarà un problema non piccolo, se il centro destra sarà chiamato, come pare, a governare.
Gianni Baget Bozzo

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