
Lettere 38
Egregio direttore,
qualche settimana fa, su “La Stampa”, Angelo d’Orsi, autore del volume einaudiano “La cultura a Torino tra le due guerre” che (grazie alla benzina gettata sul caso dal sagace Giuliano Ferrara) tante polemiche ha sollevato sulla stampa italiana (ben riassunte in uno dei vostri editoriali di mezza estate), ha fatto un bilancio dei commenti al suo libro. Anche in questa occasione d’Orsi non perde il vizio di lamentarsi un po’ di tutto e rimproverare un po’ a tutti di non aver letto, o di non avere letto bene, il suo saggio e di averlo commentato solo per sentito dire. In questo avrà forse anche qualche ragione dalla sua, ma io però, che nel corso dell’estate il libro me lo sono studiato per benino, devo dire che ne sono rimasto sfavorevolmente colpito per due motivi. 1) Con la sua ventennale ricerca d’Orsi ci offre una panoramica della cultura a Torino tra le due guerre, dalla quale emergono più coni d’ombra che lumi. Poco si aggiunge rispetto a ciò che già si conosceva circa le collusioni di intellettuali e stampa col fascismo. Molto poco si dice riguardo ad alcune figure significative della cultura di quell’epoca: Filippo Crispolti, grande figura cattolica del giornalismo e della politica; Vidari, filosofo e pedagogista, che Del Noce metteva sullo stesso piano scientifico di Gentile; Ambrosini, collaboratore della Stampa, ma che ha formato Enrico Serra; Felice Balbo, allievo di Monti, antifascista cattolico, collaboratore della Einaudi, e su cui cade un silenzio davvero sorprendente. Altri personaggi finiscono nel dimenticatoio. Enorme è la mole di informazioni che d’Orsi offre, dimostrando di essere un buon “cacciatore di pettegolezzi”. Tuttavia rimane prigioniero dello schema storiografico neoilluminista: la cultura appartiene ai buoni, Gobetti, Ginzburg, Giustizia e Libertà, Gramsci ecc., vale a dire agli antifascisti; il fascismo è “il Male” e il resto è solo ignoranza e retorica. Se ci sono stati cedimenti da parte dei “buoni”, questi vanno condannati come errori più o meno consapevoli. 2) Il secondo aspetto che colpisce del libro, e che mi pare non sia stato messo in luce da nessuno, è che d’Orsi si dimostra un pessimo storiografo allorché non fa alcun riferimento agli scritti di Augusto Del Noce. Omissione grave dal momento che Del Noce è stato il più acuto interprete critico dell’azionismo e della stessa scuola torinese. Da questa grave omissione nascono alcuni rilievi al d’Orsi, riassumibili con l’affermazione che per Del Noce Gobetti e Mussolini erano la stessa cosa, fascismo e comunismo gramsciano uguali nella sostanza. Nel dettaglio, Del Noce ha reagito contro l’egemonia culturale neoidealistica, di cui si nutriva lo stesso Gobetti, cercando di recuperare la tradizione savoiardo-piemontese e il giobertismo e Rosmini, tradizione “oscurata”, ma non cancellata dalla conquista idealistica avvenuta sotto l’insegna dell’attualismo e dell’idealismo militante de La Voce. Occorre dire a chiare lettere che Gobetti nutriva ammirazione per la filosofia di Gentile, perché imbevuto della stessa mentalità rivoluzionaria. Infatti è stato il primo scrittore italiano a dare un giudizio positivo sulla rivoluzione russa, considerata come rivoluzione liberale. Nel saggio su Noventa, Del Noce mostra con estrema chiarezza e precisione storiografica come l’opposizione fascismo-antifascismo, Gentile e Mussolini da una parte e Gobetti e Gramsci dall’altra, si combatta all’interno della stessa inglobante. Il fascismo, infatti, è nato dall’errore della cultura, e in ispecie dai suoi vertici, nella misura in cui la cultura italiana ha criticato tutto tranne il suo presupposto immanentistico. Del Noce, in decenni ormai lontani, aveva colto la necessità di approfondire la storiografia sul fascismo per porre mani ad un vero lavoro di revisionismo. Cito Del Noce: “Possiamo infatti misurare l’importanza del pensiero di Noventa se consideriamo come l’approfondimento del rapporto tra cultura e fascismo si presenti, allo stato attuale della storiografia sul fascismo, indispensabile e, insieme, quasi del tutto scoperto. Si ha una conferma indiretta della sua veduta nel libro di A. Hamilton, ‘L’illusione fascista. Gli intellettuali e il fascismo: 1919-1945’, da cui risulta quanti intellettuali di qualità si siano sinceramente ‘illusi’ sul fascismo. Ora un fenomeno così diffuso non può venire ricondotto a una semplice illusione”. Che l’approfondimento del rapporto tra cultura e fascismo sia ancora del tutto scoperto, la ventennale ricerca di d’Orsi ne è una eloquente ed ennesima chiara dimostrazione.
Massimo Tringali, Aosta
Da intimo del professor Norberto Bobbio e specialista del pensiero delnociano, Massimo Tringali sa bene che Augusto Del Noce non farà dormire sonni tranquilli al regimetto sabaudo ancora per molti anni. Mentre uno che si inchina alla città dell’antica alleanza Fiat-Pci (benedetta e sorvegliata dagli istituti borbonici dell’Azionismo) e ringrazia il padre che scegliendo Torino “mi strappò a un destino meridionale”, oltre a un bagaglio di studi ventennali che hanno prodotto un’enorme mole di pettegolezzi, deve soffrire anche di una certa educazione (ri)sentimentale nei confronti del Sud italiano. E poi,invece che lamentarsi soltanto, d’Orsi avrebbe dovuto anche un po’ ringraziare, tra gli altri, soprattutto quel sant’uomo di Giuliano Ferrara, il quale ha trasformato un saggio riservato agli archivi accademici in una formidabile cassa di risonanza di una battaglia politico-culturale ancora in corso nell’Italia postrisorgimentale, postcomunista, e finalmente antifascista, hasta la victoria, siempre!
Agatha Chirstie non concedeva approfondite descrizioni sui suoi personaggi o sui fatti dei suoi racconti che non fossero funzionali alla struttura del giallo (compreso il gioco a sviare i sospetti del lettore), e non aveva ambizioni culturali o intenti filosofici. Non era Chesterton. Eppure, in merito al titolo del vostro editoriale, in due storie di cui ora non ricordo il titolo, senza alcun dibattito o dissertazione, emerge che il personaggio Poirot fosse cattolico.
Roberto Bera, Milano
Il pensiero laico si nutre di attenzione alla realtà, gusto per la ragione, amore alla libertà ed è fiorito su terra occidentale, di matrice giudeo-cristiana (tant’è che con tutto il politicamente corretto rispetto che si deve alle diversità, sembra abbastanza difficile rintracciare analoghi segni di laicità in società lontane e/o ostili all’ebraismo e al cristianesimo). Il realista, logico, ordinato, commissario Poirot è un personaggio che rispecchia questa civiltà. Tanto per tornare sui contenuti dell’editoriale che il titolo “Laico, cioè Poirot” voleva illustrare, ripeteremo che, a nostro modesto avviso, laicità non è lo spazio ad appannaggio esclusivo dei non-credenti, i quali, per il fatto di essere non credenti, avrebbero un timbro in più sul passapaorto del libero pensiero. Laico (come ad esempio ci sta documentando il senatore ebreo ortodosso Lieberman, candidato alla vicepresidenza Usa con Al Gore) è l’uomo che, senza far leva su timbri e passaporti, esercita le facoltà della ragione e del giudizio e che in forza dell’esercizio di tali facoltà è aperto al paragone con chiunque. Questo è esattamente ciò che vorrebbero negarci i clericali-clericali e i laici-clericali, coloro i quali cioè, dividendosi e contestandosi sulla base del credere o del non credere in Dio, per patente studipidtà o, più spesso, per potersi reciprocamente reggere il moccolo di autorità indiscutibili ciascuna nel proprio campo, vorrebbero darci a bere che credenti e non credenti procederebbero sì insieme, ma su rette parallele e, dunque, in un escatologismo proprio dei clericali-clericali (sottoscritto anche da certo sedicente pensiero laico) il dialogo sarebbe destinato a incontrarsi tutt’al più all’infinito, cioè nell’al di là. Anche grazie al nostro gentile lettore, ora possiamo comprendere meglio quel titolo di editoriale che ne presuppone (sillogisticamente) anche un altro: “Laico, cioè Poirot, cioè cattolico”.
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