
Quei fondamentalisti di Londra
L’ex ambasciatore Sergio Romano è uno degli osservatori più lucidi e sensibili alle evoluzioni della politica internazionale in uno scenario sconvolto dalla guerra nei Balcani. Filo-atlantico per cultura e vocazione, Romano è stato, infatti, da subito tra i più scettici sugli scopi e le prospettive di un conflitto che, come ha dichiarato in un’intervista al Foglio, “altro che umanitario, è più immorale di quelli coloniali”.
Ambasciatore, la debolezza politica del nostro governo e, per molti versi, dell’intera Europa, giustifica secondo lei l’assoluta leadership angloamericana nell’impostazione della strategia e delle operazioni militari Nato?
Innanzitutto, occorre tener presente che le operazioni militari contro Belgrado sono state fortemente desiderate da alcuni governi europei. Giusto o sbagliato, sono stati i paesi europei a mettersi in questa prospettiva fin dall’epoca della crisi bosniaca: hanno sentito la responsabilità della crisi e si sono addossati il compito di mettere pace nella regione. Non essendovi riusciti con i caschi blu dell’Onu in Bosnia tra il 1992 e il 1995, hanno loro stessi sollecitato l’America a coinvolgersi in una vicenda da cui gli americani avevano voluto star fuori. Di qui le operazioni Nato nel ’95 e nel ’99. Dopodiché, quando si entra in un meccanismo che alla fine del percorso comporta l’uso della forza militare, è inevitabile che la direzione delle operazioni sia presa da chi dispone di quella forza in misura maggiore: paga la musica e la dirige.
Intanto i soldati del battaglione San Marco vanno in Albania. Dobbiamo prepararci a un intervento di terra? In tal caso – anche se il governo lo esclude – prevede che anche gli italiani possano parteciparvi?
Si aprono due prospettive: se sarà un’operazione di guerra, l’Italia non parteciperà perché il governo non ha la forza per autorizzare un simile intervento e perché non ne avremmo i mezzi; se invece sarà un intervento di polizia e di controllo di un territorio già pacificato, allora ci sarà anche un contingente italiano. Ma sarà inevitabilmente una presenza di quarto o quint’ordine, perché al di là della composizione politica del nostro governo, non si può fare la guerra spendendo per le forze armate l’1% del bilancio nazionale.
Nel frattempo in Albania si verifica una sorta di commistione e tra operazioni umanitarie e militari che farebbe pensare ai preparativi di un intervento…
È inevitabile che, prima o poi, un corpo militare entri in Kosovo: si tratta di vedere con quali compiti, se di polizia e mantenimento della pace o per combattere. Non credo che oggi l’opinione della maggior parte dei governi sia favorevole a un intervento di terra in condizioni di conflitto. Non lo vogliono gli Usa e non lo vogliono i paesi continentali dell’Alleanza atlantica. Lo vuole, probabilmente, soltanto il governo inglese. Gli Stati Uniti sono contrari, non soltanto per timore della reazione dell’opinione pubblica alla morte di soldati americani, ma soprattutto perché non si va a morire per qualche cosa che non sia un interesse nazionale. E, allo stato delle cose, non siamo di fronte a interessi nazionali. Il che non significa che, strada facendo, la guerra non diventi di interesse nazionale: per esempio se i bombardamenti continueranno senza riuscire a far accettare a Milosevic quanto gli si chiede, la guerra diventerà sempre più un conflitto per la sopravvivenza della Nato…
E, come si dice, sarà sempre più una guerra da vincere a tutti i costi. Ma esiste ancora una strada per vincerla senza arrivare all’intervento di terra?
Questo non lo deve chiedere a me, ma agli strateghi. Loro pensano di sì. La tesi di Bruxelles e di Washington è tuttora questa: ancora un po’ di bombe e i serbi cedono. I bombardamenti basterebbero da soli e l’intervento di terra potrebbe quindi aver luogo in una zona pacificata e liberata dalle forze serbe, in condizioni perciò di rischio minimo per il contingente di terra.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito alle aperture, quasi dei messaggi oltre cortina, del vice primoministro Vuk Draskovic poi dimissionato. Non pensa che questa fosse un’occasione da sfruttare con più convinzione? Al momento, il caso Draskovic potrebbe dimostrare tanto una crepa nel regime, quanto la forza di Milosevic capace immediatamente di piegare ogni opposizione. Non sono comunque sorpreso che una simile occasione non sia stata sfruttata perché il vertice di Washington si è chiuso con la strategia dei bombardamenti a oltranza e lo spazio della mediazione, al momento occupato dai russi, si fonda invece sull’interruzione dei bombardamenti. È la premessa indispensabile per ogni negoziato e la Nato non la accetta.
È la stessa “guerra di principio” che richiede la distruzione del nemico e nega ogni spazio di mediazione, non crede?
È il concetto di guerra a oltranza fino alla resa senza condizioni. Concetto abbastanza radicato nelle democrazie angloamericane, restie ad entrare in guerra, ma decise ad andare fino in fondo, fino allo sradicamento del “male” e all’annientamento del nemico, una volta iniziato il conflitto. È una sorta di fondamentalismo democratico.
Come uscirà la Nato dalla guerra e l’Italia, alleato “poco affidabile”, che ruolo potrà avere all’interno dell’Alleanza?
La Nato è un’organizzazione militare e perciò il peso dei singoli paesi nell’Alleanza dipende dal loro apporto. Allo stato attuale, perciò, l’Italia non potrà che avere un ruolo di basso profilo. Però, se la Nato continuerà ad essere un’organizzazione con competenza nell’area euro-atlantica e attenta al Medioriente l’Italia resterà una portaerei naturale indispensabile. Non sarà un contributo dei più dignitosi, ma pur sempre un contributo. Il futuro della Nato, infine, dipenderà dall’esito della guerra in Kosovo. Una sconfitta avrebbe, ovviamente, gravi ripercussioni sull’Alleanza; ma vincere potrebbe anche non bastare: una Nato che vincesse distruggendo la Serbia e sconvolgendo l’intera area balcanica qualche perplessità la solleverebbe…
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