Una Biennale fuori dalla realtà

Di Frangi & Stolfi
23 Giugno 1999
Senza ombrello, sotto il temporale

Abbiamo visto un quadro alla nuova Biennale di Venezia che ci è sembrato molto emblematico. L’autore è uno dei pittori più apprezzati oggi dalla critica e dal mercato (i suoi quadri valgono svariati miliardi). È tedesco e si chiama Sigmar Polke. Un quadro enorme, verticale e suggestivo: sotto una trama molto calligrafica di punti d’oro appare una sagoma vagante e misteriosa. L’effetto, per luminescenza, è quello di una vetrata (tra l’altro, è tanto alto da doverlo guardare di sotto in su, proprio come accade per le vetrate nelle cattedrali). I mille frammenti di cui è composto sono i mille pezzi di cui è composta ogni grande vetrata, ma passati attraverso la sistematica messa in regola di un computer: insomma metà vetri e metà pixel. Anche il titolo non stona all’interno di questo parallelismo che abbiamo tentato: si chiama infatti “L’Apparizione di Maria” e quella sagoma che naviga dietro la griglia di pixel d’oro scopriamo essere proprio la Vergine Maria. Non c’è nessuna ironia in questo quadro che campeggia nel mezzo della laicissima, divertente e scapestrata Biennale coordinata da Harald Szeemann. Leggendo la scheda che nel catalogo accompagna “l’apparizione” di questa opera scopriamo che Polke ha inteso rovesciare il nesso abituale della percezione. Dice l’artista, non esiste più causa ed effetto. Dobbiamo smettere di pensare che gli effetti siano decifrabili dalle cause che li hanno determinati. Il mondo è fluido, gli eventi scorrono secondo correnti misteriose e non grigliabili in nessuno schema e in nessuna logica consequenziale. Le sembianze di Maria, ad esempio, aleggiano nell’atmosfera e un occhio libero dalla schiavitù della catena di causa ed effetto può accorgersene. Suggestivo, senz’altro. Ma cosa sarà in grado di dirci Maria? Nulla, perché non deve, non può determinare nessun effetto. Deve restare tassativamente irreale. Ecco il punto: quel grande quadro simil-vetrata vive per dimostrare che si può risplendere senza essere un “effetto” della luce che, filtrando, sarebbe la “causa” in grado di toglierci dalla tana del buio. L’occhio con cui guardarlo non è ovviamente quello fisico, il quale trasmetterebbe al cuore lo stupore, “effetto” di una cosa vista e inaspettata (ricordate Bernardette? Lei chiama Maria proprio così: “Aquerò”, “Quella cosa”). È l’occhio della mente che si accasa in un bagno di luce primordiale, dove non c’è più tempo e non c’è più realtà. In una parola non c’è più dramma (e se fosse proprio l’assenza del dramma la chiave per leggere questa Biennale, per altro bella, armonica e qua e là impertinente? Ne riparleremo).

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