
Spazio al popolo
In occasione del centenario della nascita di Lucio Fontana, il maestro dello spazialismo che Milano celebra con una serie di mostre, Tempi ha incontrato l’artista Filippo Degasperi, uno dei protagonisti degli anni in cui Milano era alla ribalta nel mondo dell’arte Come hai conosciuto Lucio Fontana?
Nello studio del povero Roberto Crippa, che poi è morto in un incidente aereo. Ho cominciato subito a provare simpatia per quest’uomo elegante, coi baffi ben curati, che parlava un bel milanese schietto. Frequentandolo ho capito che era lui il decano del gruppo degli Spazialisti. Se c’era una controversia si ricorreva a Fontana. Era quasi come un giudice.
Ritornato in Italia nel dopoguerra (1947), Fontana non è stato capito subito. Eppure era già uno scultore affermato quando realizzò i cosiddetti “Concetti Spaziali” (una serie di sculture iniziate nel 1948-49, mentre i primi tagli su tela “Concetti spaziali-Attese” risalgono al 1959, ndr).
In effetti in quell’epoca non c’era un solo gallerista a capire Fontana, tant’è che lui vendicchiava a prezzi irrisori le sue opere. Mi raccontò che una volta, siccome doveva arrivare l’ufficiale giudiziario, aveva cementato a terra il letto, il tavolo e le sedie, non sapendo che non vengono mai requisiti. Intanto, sua moglie Teresita faceva la sarta per coprire i debiti. Il primo a comprare qualcosa fu un certo Spaggiari. Ma la sua fortuna, anzi la fortuna di tutto lo Spazialismo, venne dalla Galleria del Naviglio, da Carlo Cardazzo.
Osservando alcune opere esposte alla mostra del P.A.C. (pensiamo a “Mujer con Mascara” – 1940), si intuisce che Fontana voleva mettersi a confronto con Picasso per tentare di superarlo. Così riprendeva alcuni soggetti dello spagnolo – come i saltimbanchi del “periodo rosa” – ma li colorava (il colore toglie peso alla forma) aprendo nuovi campi d’indagine artistica…
Sì, è vero, e questo atteggiamento era motivato in lui dal rifiuto di appiattirsi sulla maniera degli altri pittori dell’epoca, tutti tesserati del Partito comunista italiano e rigidamente figurativi: il partito infatti, voleva un discorso che fosse comprensibile dal popolo per fare propaganda politica. Così Guttuso nei suoi dipinti dipinge mani che sono tipicamente picassiane. Ma questo asservimento Fontana non lo poteva sopportare.
Qual è l’origine della problematica dello spazio in Lucio Fontana? E qual è il suo rapporto con Boccioni, un altro artista molto legato alla città di Milano?
Fontana era un grande sostenitore dei futuristi. Aveva in particolare recepito la problematica futurista della velocità, approfondendone il rapporto con lo spazio. Infatti la velocità si traduce nello spazio: se un oggetto – che allora era una locomotiva o un aeroplano (i futuristi non potevano ancora pensare ai missili) – va dal punto A al punto B, determina uno spazio. E l’importanza di questo spazio non era stata ancora sviscerata. C’è questo alla base del taglio nella tela: è un modo per andare al di là. La tela diventa una scultura, non è più una pittura. Ci passa lo spazio attraverso, e quindi la luce. Il che si collega con quello che diceva Boccioni, quando realizzò la scultura ‘Forme uniche nella continuità dello spazio’ (1913). Anche le ceramiche di Fontana, o le sue figure umane in movimento, come certe “Crocifissioni” (esposte al Museo Diocesano), si espandono verso l’esterno, partecipano dello spazio attraverso le loro slabbrature, date dai colpi di pollice… Mi pare evidente anche in questo caso l’analogia con l’opera scultorea di Boccioni. Ma c’è una novità in più, il colore, vivissimo. È un passo in avanti rispetto a Picasso, che ha un problema soltanto di volume e d’immagine. Qui c’è un’altra partecipazione, quella del movimento dei futuristi, che in Fontana è diventato spazio.
Fontana, nei manuali di pittura, viene spesso descritto come un elitario, un artista staccato dal mondo, perso nei suoi pensieri. Invece, leggendo le sue interviste, colpisce molto la sua appartenenza popolare.
Eccome! Lucio era assolutamente legato al popolo, aveva una grande umanità. Nella sua azione però, non si preoccupava di essere popolare o no. L’unica sua preoccupazione era di fare continuamente della ricerca. Anche se le reazioni alle sue sperimentazioni, qui in Italia, furono – come abbiamo già ricordato – in larga parte negative.
Pochi lo capirono, anche dopo, e forse seguirono solo la moda, perché alcuni galleristi dicevano “Fontana è importantissimo” e allora doveva valere. È un pò triste, ma credo che pochissimi abbiano cercato di capire veramente, fino in fondo, la sua idea.
Infatti, poco prima di morire, Fontana rilasciò un’intervista dove disse che non era stato capito da nessuno.
Purtroppo è così, e per lui fu un grande dolore. È come se la società, che lui amava, l’avesse abbandonato per la sua strada. Perché lui non defletteva mai dalla sua linea, non scendeva mai a compromessi. Soprattutto, detestava l’arte legata alla propaganda. C’era invece chi accettava il compromesso e veniva aiutato: pochi avevano il coraggio di continuare la propria strada da indipendenti. Con la forza del Pci sono state create mostre e case degli artisti, stuoli di pittori e scultori di cui adesso non ci si ricorda più… Invece per Fontana l’arte non doveva essere trainata da motivazioni spurie, fossero stati anche gli argomenti più belli. Sia chiaro: un artista è signore nel suo atelier e può benissimo fare un’opera in omaggio ad un fatto umano, a una battaglia o a un episodio storico. Ma non si può ridurre tutta l’arte a questo. Così Fontana è stato capito e accettato di più fuori dal nostro paese, quando ha cominciato a esporre all’estero e a conoscere un certo giro di artisti: Yves Klein, Jackson Pollock, che arrivò in Italia nel 1948 ed espose alla Galleria del Naviglio. Ed era l’unico italiano che riusciva a farci uscire dal nostro provincialismo.
C’è stato addirittura chi ha accusato Fontana di non saper disegnare e di cavarsela per questo coi suoi tagli e col postulato teorico dell’Arte Spaziale…
Per rispondere basta guardare i suoi magnifici disegni, con intervento di colore, di figure umane, di una freschezza e di una bellezza straordinaria. Molti sono esposti in questi giorni al Museo Diocesano e al PAC. Ma anche nella scultura, ci sono tanti disegni e ritratti fatti da lui (come “Signorina seduta” -1934 – e “Ritratto di Teresita” -1949- esposti al PAC) perché chi sa scolpire sa anche dipingere. Io trovo magnifiche anche quelle sue ceramiche non figurali che sono riproduzioni della figura umana, o quelle sfere che esplodono dall’interno verso l’esterno, fatte tutte di creta.
Perché si parla spesso di Fontana come “barocco”?
Perché si scambiano i suoi guizzi nella materia per svolazzi barocchi. Invece si dovrebbe pensare al concetto dell’uomo in movimento di Boccioni. Il modo di fare scultura di Fontana – nonostante la base classica appresa da Adolfo Wildt – non è squadrato, geometrico. Ma è sensibile, rutilante, pieno di vuoti e di pieni che sembrano riccioli. Tanto che questi vuoti e pieni sono stati scambiati per barocco, invece è tutta materia in movimento, perché non c’è nulla di statico nella sua scultura.
Il fare artistico di Fontana è stato associato più volte al materico, oppure al gestuale…
Si può associare al gestuale perché era un gesto unico quello di fare un buco, o un taglio. Ma non lo direi materico, perché la materia sprizza via da tutti gli angoli e si muove in tutte le direzioni.
Che diversa concezione di fare artistico c’è tra l’arte che è al servizio della collettività, ma è intesa come ricerca, e l’arte che si pone il problema di essere al servizio della collettività, ma è propaganda?
La mia idea è che per fare propaganda si è costretti a fare della cronaca. Per esempio, i celerini che si picchiano con gli operai o gli studenti durante una manifestazione.. quella è cronaca, e in quel campo siamo già stati battuti dalla macchina fotografica. La battaglia di Breda la doveva ricordare un pittore disegnando, perché non c’era la macchina fotografica. Ma neppure questo, per me, è il campo della pittura, se uno lo usa come suo filo conduttore. Si può portare sulla tela un episodio, una battaglia, se ci ha colpito. Però, se lo facciamo metodicamente diventa un sistema chiuso, un fare pubblicitario.
Gli artisti di oggi creano ancora dei movimenti?
Io ne ho creato uno che era l’Astrarte (1975) con lo scomparso Montenesi, con Lattuada e Franco Bisotti (che è morto anche lui). Si viveva in comunità, si andava tutti uniti a fare le collettive, l’arte la si viveva così. Il metodo era il filo conduttore, come avviene per ogni gruppo, per ogni tipo di ricerca.
Il progetto di un’operazione artistica è come un sasso gettato nel futuro, al di là del muro del tempo. Quando cade nell’acqua fa dei cerchi concentrici che si allargano sempre di più ma, se al di là del muro non c’è uno specchio d’acqua, può cadere nel fango ed essere coperto. L’arte è come un magnifico palazzo e ogni artista è un mattone o una pietra. Noi ci basiamo su ciò che è stato fatto prima di noi, ed è un continuo divenire, una continua ricerca e un continuo cantare, dimostrare – chissà cosa ci sarà sopra di noi? Sono tutte le esperienze superate che servono da gradino per salire! Invece si è diffusa l’idea che l’avanguardia debba sempre rompere. Al contrario l’Avanguardia può anche risalire per la sua strada, perché è un’evoluzione, un punto del pensiero dell’uomo.
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