
Travaglio sugli specchi. Giuristi e storici smontano la trattativa Stato-mafia
C’è qualcosa che dà molto fastidio a Marco Travaglio negli ultimi giorni, tanto da averlo spinto a difendere con due lunghi editoriali in tre giorni il processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Il “sassolino” nella scarpa di Travaglio si chiama Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale dell’università di Palermo, che è anche autore di un saggio che ha bocciato il processo sulla trattativa in corso a Palermo, pubblicato sul Foglio.
Fiandaca, che è stato membro laico del Csm (nominato dal centrosinistra) negli anni Novanta e collaboratore dell’ex guardasigilli Oliviero Diliberto per la legislazione antimafia, è stato sempre ritenuto dallo stesso Antonio Ingroia un maestro. Per questo ha una certa rilevanza anche per Travaglio che il penalista, punto per punto, abbia decostruito il modello accusatorio della procura di Palermo. Per Fiandaca la procura «non è finora riuscita a prospettare ipotesi di reato plausibili»: in discussione c’è soprattutto il reato contestato a mafiosi e rappresentanti delle istituzioni, i fatti che sarebbero stati commessi nella presunta trattativa, persino l’esito che l’accordo stato-mafia avrebbe partorito. Il professore annota che l’unica possibile conseguenza di un patto è che fu allentato il regime del 41 bis per 300 mafiosi non di rango nel 1993, e conclude: «La montagna partorì un topolino?».
IL TEOREMA VISTO DA UN PENALISTA. Fiandaca ha esposto ad un pubblico più ampio queste riflessioni lo scorso 1 luglio, in un convegno a Palermo. In particolare, attraverso un’analisi delle carte processuali, la lunga riflessione di Fiandaca ha fatto luce anche sulla cultura che sta dietro l’inchiesta sulla presunta trattativa. Per il professore ci si è mossi nella formulazione delle accuse «pregiudizialmente a partire da un giudizio di grave disapprovazione etica e politica»: e volendo giudicare in chiave penale eventuali scelte che anzitutto restano di carattere politico, «implicitamente diventa la magistratura l’unico organo depositario del potere di stabilire cosa competa, o non competa, al governo e agli organi di polizia. In quest’ottica il principio costituzionale della divisione tra i poteri non trova spazio, e l’unica legalità possibile finisce con l’essere quella ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente la magistratura».
LE “RAFFINATE” OBIEZIONI DI TRAVAGLIO: A tutto ciò, Travaglio, con ragionamento “fine” ed “equilibrato”, ha inizialmente replicato così: «L’esimio professor Fiandaca, già candidato trombato alle primarie del centrosinistra per il comune (in realtà la provincia, ndr.) di Palermo e autore di uno “squisito” saggio pubblicato sul Foglio col raffinato titolo “Il processo sulla trattativa è una ‘boiata’ pazzesca”. Talmente pazzesca che tutti gli imputati, a suo dire innocenti, sono a giudizio; e il processo, a suo dire inevitabilmente destinato a Roma, rimane a Palermo. Un figurone. Cose che capitano quando si scrivono saggi o articoli prét-à-porter con procedura d’urgenza. Senza avere il tempo o la voglia di leggersi gli atti del processo».
Ma anche Travaglio dev’essersi reso conto che l’attacco di un esponente della sinistra e del diritto penale così tagliente meritava una risposta nel merito. Così il vicedirettore del Fatto ha tentato di darla domenica, ma è riuscito a collezionare uno strafalcione dietro l’altro. Travaglio ad esempio, per dimostrare la bontà indiscussa della tesi dei pm, ha citato erroneamente tra gli imputati l’ex ministro della giustizia Giovanni Conso (che imputato non è). Poi ha voluto citare come esito della trattativa i nomi dei 300 mafiosi che avrebbero ottenuto dei benefici carcerari: ma di questi ha dimenticato di dire che appena 20 erano siciliani e affiliati di Cosa nostra, e oltre tutto erano delle seconde e terze file dell’organizzazione.
STORICI E POLITICI CONTRO LA TRATTATIVA. Travaglio non è riuscito quindi a rispondere alle osservazioni di di Fiandaca sull’impossibilità di perseguire un’ipotesi di reato valida. Ma non ha nemmeno replicato a tutte le altre osservazioni critiche sul processo fatte al convegno di Palermo dell’1 luglio, da due storici e due politici.
Tra gli storici, la critica più interessante è stata mossa da Salvatore Lupo, docente ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Palermo, studioso della mafia in Sicilia. Lupo ha spiegato come nella storia siciliana e italiana, è percorsa da “trattative” tra lo Stato e la mafia, e come la ricostruzione storica dei pm palermitani faccia a “pugni con la realtà”. In particolare, per Lupo «nel processo palermitano si discute della trattativa come una nuova base per il potere mafioso, quando nei fatti gli anni dal ’93 in poi hanno visto una sostanziale sconfitta del fenomeno mafioso. Sembriamo dimenticare che i capi di Cosa Nostra sono stati tutti arrestati, che Cosa Nostra fatica a rinnovare le sue seconda e terze fila e che, non appena si sono formati fenomeni come quelli degli Inzerillo (boss che dagli Usa tornavano a Palermo, ndr.), essi sono stati stroncati e repressi. Il punto è che alla sconfitta della mafia non segue il Bene, non segue il mondo senza conflitti, né un mondo senza malavita organizzata e malaffare, ma non è questo un problema che la procura di Palermo può risolvere. Il concetto che vedo dietro l’inchiesta della trattativa è che la sicurezza dei cittadini italiani non appartiene al ministro degli Interni, mentre in un sistema liberaldemocratico la sicurezza spetta proprio a quel ministero e non alla magistratura».
Altre critiche durissime sono state espresse da Giuseppe Di Lello, magistrato ed ex senatore di Rifondazione Comunista: «Bisognerebbe dire che sotto il governo Berlusconi il 41 bis fu addirittura saldato, ma su questo la memoria dei pm glissa un po’. La procura invece arriva all’ipotesi di un patto criminale di coesistenza tra la nuova classe dirigente della seconda repubblica e la mafia. Posso dire che se fossi imputato sarei terrorizzato dal dovermi difendere da un’accusa storica, non di carattere penale».
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