Si era a fine 2006 quando Giorgio Pardi diceva a questo settimanale: «Sono ateo o, se preferisce, un laico. Per ritenere l’aborto un omicidio non serve la fede. Basta l’osservazione. Quello è un bambino. L’aborto è un omicidio. Fatto per legittima difesa della donna. Ritengo che la 194 sia un’ottima norma. Mi fa un po’ ridere chi sostiene sia intoccabile. Ma come intoccabile? Nessuna legge, dice la Costituzione, è intoccabile. Si può dire che non serva ritoccarla, ma solo applicarla fino in fondo, soprattutto in quella sua parte iniziale in cui si prescrive tutto il necessario per far recedere la donna dal suo intento». Secondo Pardi bisognava fare in modo che la donna non abortisse, che fosse informata il più possibile sulle conseguenze che una tale scelta provoca, che sapesse quali fossero gli aiuti anche economici che le potevano essere offerti. «Chi interrompe una gravidanza deve essere ben conscio di procurarsi una ferita che lascia cicatrici profonde, indipendentemente dal metodo abortivo usato». Pardi, al tempo del colloquio direttore del reparto Donna e bambino della Mangiagalli di Milano, aveva un sogno: lui, primo medico in Italia a eseguire un’interruzione di gravidanza dopo l’introduzione della legge 194, desiderava spostare l’ufficio del Centro aiuto alla vita (Cav) accanto a quello del consultorio. Pardi è deceduto nella primavera del 2007 e forse oggi sarebbe piuttosto scocciato nel sapere che il Cav è ancora nascosto al terzo piano. Alcuni medici che lavorano da anni nell’ospedale più grande e importante del nord Italia confessano candidamente di non esserci mai entrati. Non c’è ascensore e le rampe di scale non invogliano la ricerca. Eppure, come dice a Tempi Paola Marozzi Bonzi, responsabile della struttura, «nel 2007 le richieste d’aiuto sono aumentate dell’83 per cento».
Parlare di maternità in Italia e della Mangiagalli è raccontare la medesima storia. La clinica nacque poco più di cent’anni fa per opera dell’ostetrico e sindaco Luigi Mangiagalli, proprio accanto all’ex convento di Santa Caterina dove c’era la ruota per i bambini abbandonati. E, anche per quel che riguarda gli ultimi trent’anni di storia patria, narrare quel che è successo in Mangiagalli e raccontare cos’è stato ed è l’aborto, significa ripercorrere gli stessi capitoli di una medesima vicenda. Fu qui che si svolsero le dispute più accese sulla 194, fu qui che si svolse il primo intervento, fu qui che, proprio per opera di Paola Marozzi Bonzi, nacque il primo Cav d’Italia. «Eravamo quattro gatti», ricorda. «Io, mio marito e tre amici. Scrivemmo una lettera al consiglio d’amministrazione della clinica per chiedere un posto dove stabilire un centro d’ascolto. Dopo un anno, era l’autunno del 1984, ottenemmo un locale nella sagrestia della parrocchia della Mangiagalli. Ripeto: ascoltavamo le donne che liberamente si rivolgevano a noi, non le andavamo a cercare. Da subito venne qualcuno, ricordo che la prima settimana avevamo già fatto due incontri». Il clima non era dei più distesi: «Il professor D’Ambrosio ci avversava in tutti i modi. Avevamo affisso delle targhe segnaletiche in corridoio per indicare dove trovarci. Durarono quaranta minuti, poi furono smontate e gettate nei rifiuti». Oggi è diverso, ma di problemi ce ne sono ancora molti. «Grazie a Pardi e al clima che si è instaurato in ospedale le donne che si rivolgono al Cav sono aumentate in maniera esponenziale tanto che abbiamo finito i soldi e siamo andati pericolosamente in rosso con le banche».
Il Cav offre questo aiuto a chi lo desidera: «Innanzitutto di sostegno morale e psicologico. Dove è necessario, anche economico». Si tratta di 250 euro al mese per un anno e mezzo più, nei casi più gravi, anche abiti, attrezzature per il neonato, pannolini, cibo. Capita spesso che a rivolgersi al centro siano «badanti straniere, tenute sotto ricatto dai padroni di casa: o il lavoro o il bambino. Queste donne, per quel che possiamo, le ospitiamo in uno dei nostri 12 appartamenti». Fino a pochi anni fa gli appartamenti erano 29 e il Cav gestiva anche una struttura residenziale. «Ma oggi non più, non abbiamo soldi», si lamenta Marozzi Bonzi. È per questo che, mesi fa, si è dimessa dalla carica: «Non ce la faccio davanti a una donna che mi chiede aiuto dirle: “Vorrei, ma non posso”». La vicenda ha attirato l’attenzione del presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, «che si è mosso in prima persona per aiutarci con uno stanziamento di 500 mila euro. E anche il Comune ci ha offerto una tantum di 200 mila euro». Soldi preziosi, spiega, «ma che non bastano rispetto alla richiesta che abbiamo».
La cultura del feto perfetto
Racconta il ginecologo Andrea Natale: «In Mangiagalli di aborti se ne fanno tanti. A ogni seduta arrivano anche 12, 15 persone». Per molte di loro un aiuto economico sarebbe fondamentale, per altre, come aveva raccontato Pardi, «è un problema culturale e sociale. Abbiamo creato la cultura del feto perfetto: la donna esige un feto perfetto e rifiuta il benché minimo grado di imperfezione. Oggi si presentano signore con referti da cui risulta che il bambino ha sei dita in un piede. Vivono questa banale anomalia come un dramma. Questa leggera imperfezione porta molti a ritenere che la vita, non potendo essere considerata “di qualità”, sia in qualche modo da rifiutare. C’è, cioè, una spaventosa difficoltà ad accettare l’imperfezione, la difficoltà. Per la cultura di oggi imperfezione uguale eliminazione. Tutto ciò è mostruoso». Concorda Natale: «Troppe volte la questione è affrontata con leggerezza, si tiene conto di tante cose, di molti problemi ma non si fa i conti col fatto di avere un figlio in pancia. E l’atteggiamento dei medici non sempre aiuta a fare i conti con questo».
Alla 21esima settimana
La ginecologa Alessandra Kustermann lavora da trent’anni in Mangiagalli ed è oggi responsabile del Servizio di diagnosi prenatale e del Centro soccorso violenza sessuale e domestica. Stimatissima, «di sinistra» come lei stessa precisa, abortista e favorevole all’introduzione della pillola Ru486, è stata coordinatrice regionale del comitato che sosteneva la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito Democratico. «Ora non ho più ruoli – chiosa – preferisco fare il medico». Tuttavia, dopo aver saputo che il leader del Pd ha accettato di confrontarsi con il direttore del Foglio sulla moratoria sulla 194, dice a Tempi: «La 194 è una buona legge, ma occorre fare delle politiche attive per rendere reale l’applicazione di quel che enuncia nel suo articolo 1. Lo Stato deve attuare delle politiche pro vita per far rispettare la norma. Il che significa: aiuti economici, casa, asili nido. Poi io penso sia necessario un potenziamento dei consultori, affinché siano accessibili anche alle straniere clandestine».
L’immagine che solitamente trapela sui giornali di questa verace ginecologa è di una pasdaran della 194. Se è vero che ne è una convinta fautrice, è anche vero che molte delle donne che si rivolgono al Cav arrivano dicendo: «Mi manda la dottoressa Kustermann». «Faccio tutto quel che posso perché penso che il dovere di un medico sia la cura globale della persona. Nel rispetto della sua libertà di scelta, credo anche che la donna non debba mai essere lasciata sola. Per questo alla Mangiagalli si lavora sempre in équipe con neonatologi e psicologi, affinché la donna sappia sempre a cosa va incontro e non sia abbandonata un momento dopo la sua scelta».
Formigoni ha annunciato che a fine del mese emanerà delle linee di indirizzo operativo sulla 194. Il governatore vorrebbe che non si praticassero aborti terapeutici dopo la ventunesima settimana. La legge non fissa un’età anche se, per prassi, il crinale è oggi posto sulla 24esima settimana. Tuttavia, «grazie ai progressi della medicina – spiega Kustermann – praticare oggi un’interruzione a quell’età significa proprio andare contro la 194 che, all’articolo 7 dice che, in caso di vita autonoma del feto, non deve intervenire, a meno di un grave pericolo di vita della donna». Quindi Kustermann appoggia l’idea di Formigoni che ha preso a modello proprio la Mangiagalli per stilare delle linee guida per tutti gli ospedali lombardi. «Su queste cose – conclude – essere di destra o di sinistra, cattolici o laici, non c’entra nulla».