
Ungheria: sì a più Europa, ma a certe condizioni
Enikő Győri, ambasciatrice dell’Ungheria in Italia fra il 1999 e il 2003, oggi è vice ministro degli Esteri competente per gli Affari europei. Nel corso dei lavori dell’Ufficio di Presidenza del Partito popolare europeo (Ppe) che si sono recentemente svolti a Firenze è intervenuta a una tavola rotonda dal titolo “La crescita economica e la difesa dell’economia sociale di mercato”. Gentilmente ci ha concesso un’intervista che fa il punto sugli orientamenti del governo ungherese nei confronti dell’integrazione europea, dopo mesi di polemiche che hanno teso i rapporti fra Budapest e alcuni organismi dell’Unione Europea.
Ministro, per mesi abbiamo letto notizie di un dissidio politico fra l’Ungheria e le istituzioni dell’Unione Europea. Da qualche mese non si odono più rumori di guerra. Cosa è successo?
L’Ungheria non fa la guerra all’Unione Europea. Crediamo nell’integrazione, siamo europeisti, però vorremmo avere un’Europa dove si può anche discutere, perché la discussione e il sano dibattito fanno bene. Io capisco che non era facile, dall’esterno, seguire tutta la grande trasformazione cominciata in Ungheria due anni fa. Eravamo l’unico paese dell’ex blocco comunista che ancora non aveva adottato, a vent’anni dalla fine del comunismo, una nuova costituzione. Funzionava ancora con la costituzione dell’epoca stalinista, con qualche modifica. Il governo attuale sin dalla campagna elettorale aveva chiarito che in caso di vittoria avrebbe prodotto una nuova Costituzione, molto chiara sulla nostra storia e sui nostri valori, e allo stesso tempo molto pro-europeista. Però oggi gli interessi politici dominano ovunque, e se un paese si mostra orgoglioso della sua storia e questa storia ha radici cristiane, a livello di partiti politici europei questo ingenera sentimenti particolari. Fra i partiti di sinistra e liberali laici che siedono nel Parlamento europeo, la nuova costituzione ungherese ha provocato sentimenti negativi. Ai giornalisti che facevano eco a tali sentimenti, io sempre ho detto: «Prima di commentare dovete leggere tutto il testo». Chi legge con attenzione, capisce che non c’è nemmeno una riga in contraddizione con l’Europa. È una costituzione moderna, che celebra la storia ma guarda al futuro, alle nuove generazioni, alle problematiche dell’ambiente, ecc. Forse noi non siamo stati bravi a spiegare quello che stavamo facendo, ma comunque se uno legge la Costituzione, scoprirà che non contiene niente di anti-europeo.
Alla riunione dell’Ufficio di presidenza del Ppe a Firenze la parola d’ordine è stata «sempre più integrazione fra i paesi dell’Unione, sempre più competenze a Bruxelles». Voi che ne dite?
Noi prendiamo parte al dibattito, siamo seduti allo stesso tavolo di tutti, anche se la nostra posizione è speciale perché non facciamo parte dell’euro. Tuttavia vogliamo un’eurozona forte e stabile, perché se qualcosa non funziona, anche noi ne soffriamo: se lo spread aumenta in Italia e in Spagna, aumenta anche in Ungheria. Siamo d’accordo che l’eurozona deve essere rafforzata. Aderiremo o no alla nuova forma di integrazione rappresentata dall’unione bancaria? Prima dobbiamo vedere nel dettaglio il contenuto della bozza del progetto che la Commissione europea sta per pubblicare. Si tratta di capire se obblighi e diritti sono equilibrati: non si può esigere dai paesi che non sono parte dell’euro di assumersi tutti gli obblighi, mentre per loro non sono previsti i diritti propri di chi dell’euro fa parte. Per quanto riguarda il dibattito sul futuro europeo, anche noi siamo d’accordo che la risposta giusta alla crisi è “più Europa”: su questo non c’è dubbio, ma anche in questo caso bisogna procedere con un equilibrio fra nuovi doveri e diritti corrispondenti.
Come vedete la crisi dell’eurozona, voi che non ne siete parte?
Pensiamo a noi stessi. Stiamo lavorando per ridurre il nostro debito, e lo stiamo facendo con successo. In due anni siamo riusciti a ridurre l’incidenza del debito sul Pil dall’83 al 77 per cento, mentre il deficit annuo è sceso sotto il 3 per cento. Abbiamo fatto un grosso lavoro, ma ora dobbiamo impegnarci per la crescita: come vede i nostri problemi sono simili a quelli italiani, anche se il peso del nostro debito è inferiore. Rivitalizzare l’economia, creare posti di lavoro: queste sono le due cose che ora ci stanno più a cuore. Abbiamo inaugurato politiche di impiego per restituire dignità ai disoccupati. Tutti coloro che sono abili devono lavorare. Non ci devono essere persone che non lavorano se sono in grado di lavorare: questo è ciò che noi chiamiamo “workfare society”. Altrimenti non saremo capaci di mantenere quella che in Europa è nota come welfare society. Abbiamo cominciato a riformare istruzione e sanità, abbiamo ridotto il numero dei parlamentari, dei governi locali, dei consiglieri, ecc. Tutto questo è necessario per la consolidazione fiscale. Se noi facciamo i nostri compiti a casa, anche l’eurozona funziona meglio, e questo va a vantaggio di tutti. Se siamo d’accordo come Europa per risanare l’economia, allora credo che siamo sulla strada giusta per farla finita con la crisi attuale ed evitare che in futuro ne scoppino altre.
Il presidente Barroso ha detto che l’azione dell’Unione Europea ha salvato lo Stato di diritto in Romania (dove si è svolto un braccio di ferro fra il governo di centrosinistra e il presidente conservatore Basescu – ndr). Lei è d’accordo con questa affermazione?
Credo di sì. La Commissione europea ha reagito velocemente e sulla base dei princìpi e valori europei, e questo ha influito sulle decisioni dell’attuale governo rumeno.
Lei nel suo intervento alla tavola rotonda voluta dal Ppe ha detto che è necessario togliere l’iniziativa ai mercati finanziari. Ma come? Un atto come quello di Mario Draghi, che ha dichiarato che la Bce comprerà senza limiti titoli di Stato se sarà necessario, va nella direzione che lei auspica?
Sì, senz’altro. Purtroppo negli ultimi anni i politici vanno a rimorchio degli andamenti dei mercati, per cui siamo nei fatti nelle mani dei mercati. Invece dovrebbero essere loro a prendere l’iniziativa. Come? Anzitutto bisogna poter agire con rapidità quando la situazione lo richiede, per esempio quando si trattava di tranquillizzare la situazione in Grecia e nei paesi della periferia del Sud. La Bce lo ha fatto. Poi bisogna andare avanti con il progetto di un’unione economica e monetaria più stretta per impedire le crisi del futuro. Dunque da una parte bisogna agire subito, dall’altra bisogna cominciare le grandi riforme per una Ue più integrata. Entrambe le cose sono necessarie. Se agiamo così, comanderemo noi, i politici, e non i mercati. Attualmente siamo troppo dipendenti dalle loro opinioni, dobbiamo essere più decisi per ottenere gli obiettivi che abbiamo fissato insieme. Si tratta di riconquistare la nostra credibilità, cioè non solo la fiducia dei mercati ma quella dei cittadini, che è la cosa più importante. E in questo riusciremo solo se realizziamo il consolidamento fiscale e la riattivazione dell’economia con la creazione di posti di lavoro: devono avere luogo in parallelo. Infine, bisogna che la gente possa mantenere la sua fiducia non solo nei confronti dei politici ma pure nel progetto europeo. A questo scopo, bisogna smettere di fare della Ue il capro espiatorio di cattive politiche nazionali.
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penso che il riformismo europeo debba viaggiare su due binari:rafforzamento delle competenze comuni e diminuizione di queste all’essenzale, come moneta, regole di mercato e controlli. sono contrario all’odierno andamento che personalmente credo vada verso una omologazione delle culture dei popoli. spero che le nazioni dell’est continuino sulla loro visione autonomista e si battano contro il centralismo omologatore. penso inoltre che l’italia potrebbe e dovrebbe avere un ruolo specifico nel dialogo con i paesi mediterranei e insieme alla spagna con quelli sudamericani. ma ciò non avviene per la desolante pochezza di nostri politici che hanno dimenticato (o forse non hanno mai avuto) senso della patria e orgoglio nazionale (quello vero non il “prego si accomodi, servo vostro” ), che non è fascismo, basta vedere gli altri paesi.