La vignetta che fa da copertina al primo numero di Charlie Hebdo dopo la strage l’abbiamo vista mille volte, nessuno però l’ha guardata sul serio. Io so perché: è la dimostrazione chiara come il sole che l’essenza del cristianesimo è penetrata nelle coscienze e incide nei momenti supremi della vita anche di chi gli si oppone e lo irride. Questa però è ancora un’osservazione in odore di trionfalismo. Non mi interessa che il cristianesimo sia a tal punto osmotico da dar forma persino al post-cristianesimo. Conta che Cristo sia meravigliosamente vero. Colma il cuore. Ci fa stare davanti all’orrore vedendo oltre l’abisso quel grembo che non si può trasformare in concetto, ma che Dante ha contemplato nella Vergine Madre: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace, così è germinato questo fiore».
Osserviamo quella copertina con calma, senza pregiudizi. È come se fosse germinata da un dolore che non trova parole e alla fine si è riposato nelle lacrime e nella pace del perdono. Sono pazzo? Sono tendenzioso? Semmai avevo un pregiudizio negativo verso quella brigata nichilista. Ero pronto a compatire gli adoratori irridenti del Nulla che ride di loro. Per cui, al vederne l’anteprima, semplicemente ho pensato: boh, roba innocua. Non lo era. È scoppiato il finimondo. E non per le pagine interne – che fanno veramente schifo, specie dove si offende l’Eucarestia –, ma proprio per la prima pagina.
Intanto cominciamo a escludere quel che l’evidenza impone di escludere. Non è vero che la vignetta è moscia, rispetto alla enormità del delitto e della tragedia: è un’altra cosa. Ha cambiato piano, dimensione, galassia. Ma di certo non è blasfema, almeno nel senso che qualsiasi uomo sensato dà alla parola. Non distorce il cuore religioso degli uomini. È vero: raffigura il volto di Maometto in caricatura persino bonaria, e per l’islam non si deve disegnare nessuno, dunque il ritratto è un’offesa in sé, come gli affreschi in San Petronio a Bologna.
E che cos’è allora? «Ho disegnato un Maometto che piange, mi dispiace l’abbiamo ancora disegnato, ma il Maometto che abbiamo disegnato è un Maometto che piange prima di ogni altra cosa», ha detto Luz, l’autore. E ha spiegato: «Ho seguito un’idea». Aveva pensato di mettere nelle mani del Profeta il famoso cartello “Je suis Charlie”. Questo ha fatto ridere Luz. Poi ha pensato che pensando a quella strage si sarebbe commosso. Ed ecco la lacrima. «A quel punto ho aggiunto “Tout est pardonné”, tutto è perdonato. Ho pianto. Avevamo finalmente trovato la nostra prima pagina. Non quella che il mondo voleva, non quella che i terroristi volevano». Il mondo e i terroristi, secondo Luz, volevano la bestemmia. Avrebbero respirato: tutto è come deve essere. Invece, scandalo, disordine.
Il perdono non c’è nel Corano per gli infedeli. La morte nell’islam redime solo chi ha sparso il sangue altrui. Dire “tutto è perdonato” è una pugnalata al cuore dell’ideologia disumana che impugna il Corano. Ma è inaccettabile anche dalla cultura dominante in Europa per cui tutto annega nel presente: è la cultura dell’attimo e se nell’attimo ti ammazzano, crepa. Invece lì, in quella pagina, incombe qualcosa di più grande del male, per cui nemmeno l’assassinio di un amico è l’ultima parola sulla vita.
Qualcosa di imprevedibile accade. Maometto vede, si identifica con quel dolore e sangue. Piange. C’è un salto. C’è un’attesa. Tutto è perdonato. Non è la voce che viene da Charlie, non arriva dalla bocca o dalla testa del profeta. È una improvvisa fontana che buca la roccia. È qualche cosa che viene da oltre il dolore, emerge da un mistero. Va contro l’istinto, che a odio risponde con odio, a morte con la morte. Non c’entra con il buonismo, che edulcora il male. Non è uno sberleffo. È uno sberleffo allo sberleffo. È una carezza. E se non è del Nazareno, di chi è?