Pur di sgambettare Matteo Renzi, l’ala sinistra del Pd guidata da Gianni Cuperlo farebbe un patto con il diavolo. Non con Berlusconi, ma con le preferenze elettorali. Affidare ai cittadini votanti l’indicazione dei candidati di partito era, fino all’anno scorso, una scelta talmente invisa agli allora bersaniani, da portarli a opporre alla sua introduzione gli scenari più catastrofici. Guerre interne di partito, infiltrazioni mafiose e voti di scambio sarebbero stati la norma in una democrazia dominata da centinaia di Franco Fiorito, er batman di Anagni (nonché recordman di preferenze, finito nei guai con l’accusa di essersi pappato svariati milioni in rimborsi pubblici).
I piddini erano, fino a poco tempo fa, così ostili alle preferenze che oggi la loro conversione suscita l’imbarazzo finanche di Dario Franceschini, ministro per i Rapporti con il Parlamento ed ex segretario del partito: «Vedo che le preferenze sono diventate improvvisamente popolarissime – ha detto Franceschini – ma io, che ho iniziato a prenderle, e molte, a vent’anni, sento il dovere morale di dire che oggi sarebbe un errore enorme reintrodurle».
CONVERSIONE A U. È improvvisa e diffusa nella sinistra Pd l’esigenza di dotare di preferenze la nuova legge elettorale. I listini bloccati dell’Italicum, frutto dell’accordo di Renzi, Berlusconi e Angelino Alfano, vengono osteggiati anche da Enrico Letta, il quale oggi, da presidente del Consiglio, è favorevole alle preferenze, mentre ieri, da braccio destro del segretario Pd, Pier Luigi Bersani, le aveva implacabilmente osteggiate. Ieri su Repubblica era però Gianni Cuperlo a far capire quanto a lui e a i suoi le preferenze stiano a cuore. Forse non sono pronti a fare le barricate, ma certamente chiederanno al Parlamento di «lavorare per evitare le liste bloccate». Non ricorda Cuperlo che fino alle elezioni del 2013 il Pd di Bersani, con il quale è stato eletto, ovvero nominato, in Parlamento, lavorava esattamente al contrario? Il Pd lo scorso inverno proponeva collegi maggioritari e listini bloccati. Bersani sosteneva che non avrebbe mai «dato l’ok una riforma elettorale con le preferenze». «Il caso Fiorito insegna», soleva dire. Già perché il caso di “er batman” fu ampiamente usato dall’ex segretario per mettere alla berlina le proposte di legge elettorale di chi, come il Pdl, in testa il segretario Angelino Alfano, ne proponeva l’introduzione.
NO ALLE PREFERENZE. Il 10 dicembre 2012, all’indomani del voto sulla bozza di legge elettorale in Senato, l’allora capogruppo del Pd Anna Finocchiaro spiegò alla stampa il motivo che aveva portato il Pd a votare contro il testo, cioè che «pur essendo simile a quello che abbiamo presentato noi, prevede come strumento per scegliere gli eletti le preferenze». Che cosa è cambiato da allora? Forse non si leggono più gli editoriali di Repubblica di un tempo, quando sotto il titolo “come cambiare la democrazia malata”, il direttore Ezio Mauro rispondeva: «Cambiando la vergogna del Porcellum», ma impedendo il «mercato delle preferenze» con le quali il voto «rischia di non essere libero e trasparente». Facendo lo stesso ragionamento di Bersani, Mauro aggiungeva: «Come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano»? Sul tema, Repubblica condusse un ampio dibattito nel quale si espresse anche l’attuale avvocato del Pd Gianluigi Pellegrino che parlò di «ingannevole sistema delle preferenze». Secondo Pellegrino esse comportano «frotte di candidati, in guerra l’uno contro l’altro all’interno degli stessi partiti», ed evocano «non un voto d’opinione» ma «piuttosto un appiccicoso rapporto clientelare».