Articolo tratto dall’Osservatore romano – Pubblichiamo la parte iniziale di un intervento sulla Chiesa di fronte alle sfide degli anni Ottanta nell’Europa centrale e orientale edito insieme ad altri contributi pronunciati in occasione del convegno «La Chiesa e la svolta degli anni Ottanta e Novanta in Europa centro-orientale», che si è svolto in Vaticano il 6 giugno 2014, organizzato dall’ambasciata della Repubblica di Polonia presso la Santa Sede in collaborazione con la Pontificia Accademia delle Scienze nell’anno della canonizzazione di Giovanni Paolo II. L’autore è un filosofo, psicologo e sociologo ceco, ordinato sacerdote clandestinamente nel 1978, Premio Templeton 2014, amico di Václav Havel e stretto collaboratore del cardinale František Tomášek.
«Uno spettro si aggira per l’Europa – spettro del comunismo», scrivevano Marx ed Engels nel rivoluzionario anno 1848. Fortunatamente, lo spettro del comunismo smise di aggirarsi su e giù per l’Europa nell’Annus mirabilis 1989.
Il mezzo secolo della dominazione comunista nell’Europa centro-orientale può essere suddiviso in diverse fasi. La prima consisteva in una sovietizzazione forzata di quei Paesi nell’immediato dopoguerra. La seconda cominciò dopo le proteste popolari contro i regimi stalinisti: la rivolta del 1953 nella Ddr, la rivoluzione ungherese e la vittoria del “comunismo nazionale” di Gomułka in Polonia nel 1956, che implicò l’affermazione della burocrazia statalista nei regimi socialisti, e finì con la soppressione della Primavera di Praga nel 1968, quando gli eserciti dei cinque Paesi del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia.
La terza fase fu contrassegnata da una generale stagnazione in tutto il blocco sovietico sotto il regime di Breznev, e si finì nel 1980 con la fondazione del sindacato Solidarność in Polonia. La quarta vide il tentativo di Gorbachev di liberalizzare il regime sovietico introducendo la perestrojka nella seconda metà degli anni Ottanta, e si concluse alla fine del 1989, con gli sconvolgimenti politici nell’Europa centro-orientale e il collasso dell’Unione Sovietica.
La campagna più violenta contro le Chiese ebbe luogo fino all’anno 1956 quando il terrore rivoluzionario degli anni Cinquanta si esaurì e il comunismo, invecchiando, mise su un po’ di pancia, l’euforia di una parte della società e la paura e la rabbia dell’altra furono sostituite da un diffuso senso di noia. Dopo il 1968, nella maggior parte dei Paesi comunisti l’ideologia comunista si trasformò in una singolare religione di Stato: curiosamente, nessuno vi credeva, nemmeno i suoi sommi sacerdoti. Nemmeno la stragrande maggioranza dei funzionari comunisti credeva più nel marxismo, diventando semplicemente, il più delle volte, dei cinici apparatčiki. Nell’est vi furono molti meno marxisti convinti che nell’ovest; nei Paesi comunisti il marxismo era morto molto prima della caduta del comunismo.
Il marxismo fu una sorta di eresia cristiana. Chesterton definì l’eresia “la verità impazzita”, una particella della verità che si è strappata a forza dal proprio contesto espandendosi e raggiungendo dimensioni terribili. Il marxismo costituiva un’inversione di sorta dell’escatologia cristiana nello spazio-tempo di un futuro storico che poteva essere pianificato e realizzato mediante gli interventi rivoluzionari nella storia.
I comunisti si aspettavano che i cambiamenti della struttura di base dell’economia, come l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione a favore di quella sociale, avrebbero automaticamente portato a dei cambiamenti nella “sovrastruttura” culturale e spirituale, generando un “nuovo uomo socialista”. L’ideologia marxista dava per scontato che la religione si sarebbe automaticamente estinta nel momento stesso in cui fossero cambiate le relazioni sociali. Ma quando venne messo in atto l’esperimento della socializzazione dei processi produttivi, la rivoluzione nella sovrastruttura non si verificò. Il cristianesimo nella Russia sovietica e, più tardi, nei suoi Stati satelliti, rifiutò di morire. La violenza che i comunisti cominciarono ad adottare contro le chiese e contro i credenti fu, in effetti, la dimostrazione pratica del fallimento della loro teoria. Neanche la violenza fu loro di aiuto. Dopo la caduta del comunismo, alcuni rappresentanti del liberalismo economico — molti di loro ex-comunisti — ereditarono dal marxismo un determinismo economico primitivo e considerarono il liberalismo come “marxismo al contrario”. Si aspettavano, infatti, che dei cambiamenti in direzione opposta nel campo economico, e, in particolare, la privatizzazione delle aziende industriali, avrebbero automaticamente cambiato gli atteggiamenti della gente e la mentalità della società, e che gli “uomini sovietici” si sarebbero trasformati in persone con tutte le “virtù protestanti” che, secondo Max Weber, stavano alla radice del capitalismo.
Però è molto più facile fare di un acquario una zuppa di pesce che far tornare zuppa un acquario pieno di pesci: la creazione di una biosfera morale per la cultura della democrazia nell’economia e nella politica dei Paesi postcomunisti sembra richiedere dei cambiamenti assai più profondi e cure più complesse di un mero cambiamento della proprietà o delle relazioni economiche.
Alcune giovani democrazie dei Paesi post-comunisti affrontano ancora il doloroso attraversamento del deserto. Ricordo una storia che mi è stata raccontata sugli indiani che venivano spostati dai colonialisti dai loro insediamenti di origine a nuovi territori. Prima della fine del viaggio gli indiani chiesero di fare una sosta, spiegando: «Forse i nostri corpi sono arrivati quasi alla fine del viaggio, ma le nostre anime si trovano ancora nelle nostre vecchie case. Dobbiamo aspettare le nostre anime». Tutte le volte che ho a che fare con delle imperfezioni delle democrazie rinate nell’Europa centro-orientale, mi vengono in mente queste parole. Dobbiamo aspettare le nostre anime. Alla domanda su cosa sarebbe venuto dopo il comunismo, Alexandr Solženicyn una volta rispose: «Un lungo, lunghissimo periodo di convalescenza».
Nell’Europa orientale si parla molto della necessità di “venire a patti con il passato comunista” — e, chiaramente, tale importante compito deve essere ancora realizzato. La condanna del comunismo non è, semplicemente, la questione di portare in giudizio qualche criminale comunista o prendere le distanze a parole dal passato regime e dalla sua ideologia. Significa, invece, rendere evidenti le “radici antropologiche del totalitarismo”, e quelle forme di comportamento e quei tratti di carattere degli uomini che permisero al regime totalitario di sopravvivere così a lungo.
Sono convinto che ciò che tenne il comunismo al potere non fu la fede nell’ideologia, e tanto meno l’esercito e la polizia, ma un patto non scritto tra i governanti e i governati: se i governati si dimostreranno indifferenti alla vita pubblica, se si atterranno alle regole del gioco, allora il regime non interferirà mai troppo nelle loro vite private. E allora, lo Stato assicurerà ai cittadini obbedienti un certo grado di sicurezza sociale e tollererà ogni genere di cose: la scarsa moralità nel lavoro, le piccole trasgressioni quotidiane contro la “proprietà del popolo”, e così via. Tale “contratto sociale” segreto formava uno strano tipo di essere umano, che lo scrittore russo Alexandr Zinoviev e il filosofo polacco padre Tischner definivano homo sovieticus: gente priva di iniziativa, creatività e senso di responsabilità.
Nel suo celebre saggio Il potere dei senza potere, scritto nel periodo comunista, Václav Havel parlò di un fruttivendolo che in concomitanza con ogni anniversario della rivoluzione d’ottobre esponeva nella sua vetrina — come era la consuetudine all’epoca — un manifesto con lo slogan di Marx ed Engels: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Cosa intendeva il fruttivendolo con quel suo gesto? Il fruttivendolo non intendeva proclamare nulla sui lavoratori e sulla loro unità. Ciò che il fruttivendolo stava dicendo ai suoi superiori, piazzando lo slogan tra cipolle e carote, era: “io sono un cittadino leale e non un agitatore. Lasciatemi in pace! Sono uno di quelli che partecipano regolarmente alle elezioni in cui il Partito Comunista riceve regolarmente il suo 99,9 per cento dei voti. Il regime può contare su di me quando ha bisogno di mostrare l’immagine delle masse unanimi e contente”.
In realtà fu questo il segreto della stabilità dei regimi comunisti. In quel clima di costante mutuo inganno e paura, l’unica persona davvero pericolosa era chi, come il bambino della favola sulle nuove vesti dell’imperatore, inaspettatamente affermasse la verità: che l’imperatore era nudo. Ricordo il potere liberatorio dei testi di Havel: c’erano le parole che svelavano la vera natura della nostra realtà quotidiana, nascosta dietro la neolingua della propaganda. Il gioco del sotterfugio venne scompigliato dal fatto che le sue regole non scritte furono scoperte e rivelate. Le parole acquisirono il potere della luce e diventarono l’arma della luce, il potere di chi non ha potere. Il coraggio di affermare la verità, di chiamare le cose con il loro nome “dicendo pane al pane” fu anche l’arma più potente della Chiesa nella sua lotta contro i regimi totalitari comunisti. La Chiesa cattolica dell’intero blocco sovietico ricevette un fortissimo incoraggiamento quando l’arcivescovo di Cracovia, cardinale Karol Wojtyła, fu eletto Papa nell’ottobre del 1978. La prima visita del Papa polacco nella sua patria, nel giugno del 1979, mostrò a tutto il mondo la vitalità della Chiesa polacca e il totale fallimento dell’ideologia comunista. Il clima psicologico di quella visita diede un forte stimolo al movimento di Solidarność.
Durante il periodo comunista la Polonia aveva conosciuto diverse proteste di intellettuali e studenti, e vari moti dei lavoratori. Il regime era sempre riuscito a far prontamente fronte a entrambi i tipi di protesta: gli intellettuali e gli studenti non rappresentavano le masse e quindi, politicamente, non costituivano nessuna forza reale. Quanto ai capi dei lavoratori, in generale non riuscivano mai a formulare le loro rivendicazioni politiche con sufficiente chiarezza, né negoziare con i funzionari del regime; spesso si accontentavano di parziali promesse sociali o misure a breve termine. Gli intellettuali dell’opposizione e i lavoratori scontenti avevano bisogno di incontrarsi e unire le forze, e ora la necessaria piattaforma veniva offerta dalla Chiesa. Con il supporto morale e logistico della Chiesa nacque un movimento di massa, con i leader dei lavoratori chiaramente identificabili e i loro consiglieri politici provenienti dai ranghi degli intellettuali dell’opposizione. Uno degli intellettuali padri di Solidarność era un prete e filosofo, padre Tischner, amico intimo del Papa. Per la storia del comunismo, la nascita di Solidarność significa ciò che la battaglia di Stalingrado aveva significato per il nazismo.
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