Al beau monde parigino, sponda goscista, piacciono poco gli insubordinati, gli indomiti, gli intellò disobbedienti, quelli che sono animati per natura da un spirito di scissione, da un’avversione intima per le indignazioni modaiole, o più semplicemente dall’urgenza fisiologica di dire la verità, soprattutto se scomoda. Come Delfeil de Ton, appunto, nome d’arte di Henri Roussel, vignettista di lungo scorso nonché uno dei fondatori storici di Charlie Hebdo (quando si chiamava ancora Hara-Kiri), che mercoledì scorso, dalle pagine del settimanale L’Obs, ha per primo scardinato il coro unanime che ha difeso e difende la linea della provocazione ad ogni costo dettata dal giornale satirico. Lo ha fatto attaccando frontalmente Charb, Stéphane Charbonnier, l’ex direttore di Charlie Hebdo, tra le vittime dell’attentato del 7 gennaio: «Un ragazzo brillante», ha scritto de Ton, ma un «testardo», che con la pubblicazione a oltranza di copertine incendiarie e aizzatrici su Maometto ha «trascinato tutta la redazione» alla morte. Parole che hanno fatto trasalire il sistema politico-mediatico – su tutti, l’avvocato di Charlie Hebdo, Richard Malka, il quale, secondo Le Figaro, avrebbe financo inviato un sms al veleno a Matthieu Pigasse, uno degli azionisti di maggioranza dell’Obs, per esprimere tutta la sua rabbia e chiedere spiegazioni circa la pubblicazione di un articolo «polemico e malevolo» come quello di de Ton –, ma che hanno trovato d’accordo il celebre filosofo e saggista francese Michel Onfray. «Dovremmo ascoltarlo invece di criticarlo, perché ciò che dice è terribilmente giusto», dice a Tempi Onfray, prima di invitarci a meditare su quanto già detto da Wolinski, il più celebre dei vignettisti assassinati dai fratelli Kouachi, il quale, alla stregua di de Ton, aveva messo in guardia dall’overdose di provocazione verso i musulmani voluta da Charb: «Credo che siamo degli incoscienti e degli imbecilli che corriamo un rischio inutile. Tutto qui», affermò Wolinski in seguito alla pubblicazione, nel novembre del 2011, del celebre numero “Charia Hebdo”. «Ci si crede invulnerabili. Per anni, decine di anni, provochiamo, e poi un giorno la provocazione si ritorce contro di noi. Non bisognava farlo».
Intellettuale inviso alla Parigi bene
Un tempo idolatrato dalla gauche per le sue posizioni libertarie e ateiste (il suo Trattato di ateologia fece strage di cuori tra i progressisti quando uscì nelle librerie nel 2005), Onfray è da due anni a questa parte un ospite indigesto nei salotti del Tout-Paris, lì dove troneggiano i trotzkisti chic alla Edwy Plenel, patron del sito d’informazione Mediapart, e i moralisti à la page come Laurent Joffrin, direttore di Libération, quotidiano di riferimento della sinistra mondialista. Entrambi, nei loro rispettivi giornali, hanno esaltato la grande marcia repubblicana dell’11 gennaio «in nome della libertà d’espressione», parlando di «sussulto cittadino» (Plenel) o addirittura della «più grande manifestazione dai tempi della Liberazione» (Joffrin), eppure poche settimane orsono erano in prima fila a criticare il troppo spazio pubblico concesso al giornalista de Le Figaro e autore de Le suicide français Eric Zemmour – Plenel, su Mediapart, ne ha denunciato «l’ideologia assassina», mentre su Libé, la scorsa settimana, è apparso un articolo nel quale è scritto che «gli attentati hanno la brutta faccia di Renaud Camus, Eric Zemmour e Marine Le Pen».
«Si chiama libertà d’espressione a geometria variabile ed è la loro specialità», dice a Tempi Onfray, fautore di una «sinistra dionisiaca», edonista, che si oppone a quella che definisce come la «sinistra del risentimento», la «sinistra di Robespierre», «che non abbraccia i valori che si richiamano alla vita, i valori positivi, ma pende piuttosto per i valori negativi», «che non si richiama tanto alla fratellanza, alla solidarietà, alla felicità del più grande numero possibile di cittadini, ma preferisce sbattere i ricchi in galera, metterli alla gogna, nei campi di concentramento o di rieducazione». Spiega Onfray: «Quella di Plenel e Joffrin è la litania ufficiale, ma non corrisponde alla realtà. Ho constatato sulla mia pelle il doppio discorso tenuto da queste persone che straparlano di libertà d’espressione, al momento dell’uscita del mio libro sulla psicanalisi freudiana (Il crepuscolo di un idolo. L’affabulazione freudiana, uscito nel 2010, all’interno del quale Onfray attacca aspramente il fondatore della psicanalisi, denunciando il carattere dogmatico di quella che è invece una filosofia discutibile, ndr): cacciato da France Inter dall’ex direttore di Charlie Hebdo (Philippe Val, ndr), infangato dai giornali diretti da Plenel e Joffrin e insultato dalla totalità della stampa benpensante, mi sono reso conto che la libertà d’espressione era accettabile sono in caso di ripetizione del loro catechismo. Non oltre».
L’ideologia tra i banchi
Tra i critici più acerrimi figurava il filosofo Bernard-Henri Lévy, che Onfray non esitò a ribattezzare in maniera pungente «Gran Timoniere di Saint-Germain-des-Prés», e la storica e psicanalista Elisabeth Roudinesco, personalità di grido dell’intellighenzia parigina e di quella gauche che lo ha scomunicato per le sue posizioni nette contro l’insegnamento della teoria del gender nelle scuole, «perché gli allievi non sanno nemmeno leggere, scrivere, contare e pensare», e soprattutto sull’islam che considera «incompatibile con le leggi della République». Il matrimonio tra Onfray e la gauche benpensante andò in frantumi nel 2010, quando il filosofo dichiarò a una trasmissione radiofonica che l’«islam non è una religione di pace, di tolleranza di amore. (…) Se si legge il Corano, la vita del profeta o gli hadith, ci si rende conto di essere di fronte a una logica misogina e fallocrate».
A dimostrazione di quella che chiama «libertà d’espressione a geometria variabile», Onfray evoca quanto successo domenica scorsa nella capitale parigina. Ossia l’interdizione, da una parte, della manifestazione anti-islamismo organizzata dall’associazione sovranista e repubblicana Riposte laïque, per presunte “ragioni di ordine pubblico”, e l’autorizzazione, dall’altra, concessa a un gruppo di autoproclamati “antifascisti” e paladini della “lotta contro l’islamofobia”, durante la quale risuonavano gli “Allahu Akbar” di fronte a una polizia impassibile. Ma il vero problema, spiega il filosofo, è nelle banlieue, in quelle scuole dove i “Je ne suis pas Charlie” e le giustificazioni degli attentati da parte degli alunni musulmani hanno surclassato i tentativi di dialogo e di rappacificazione tra comunità avanzati dagli educatori: «La mancata condanna degli attentati da parte di questi giovani simboleggia il “ritorno del represso”», sottolinea Onfray. «Lo storico ed esperto di islam Benjamin Stora e il filosofo e accademico Alain Finkielkraut hanno constatato che la folla della marcia repubblicana “era tutt’altro che variegata”. Le Clézio ha raccontato su Le Monde che un bambino di colore guardava il corteo. Il premio Nobel se ne rallegra, ma ci dice, senza rendersi conto del significato, che questo bambino era affacciato dal balcone, ovvero non per strada con i suoi genitori… La Francia non è unita. Il rifiuto del minuto di silenzio nelle scuole ne è la prova provata».
E qui Onfray ci ferma, per assestare un duro colpo al governo socialista e alle sue sterili battaglie egualitariste, concentrate nell’introduzione surrettizia dell’insegnamento della teoria del gender fin dalla tenera età: «Un mese fa, la preoccupazione del ministro dell’Educazione nazionale era quella di insegnare la teoria del gender nelle scuole, distribuendo bambole ai bambini e camioncini in miniatura alle bambine, o di abolire i voti… Come potranno questi bambini essere un domani all’altezza delle situazioni con cui dovranno confrontarsi? La sinistra è impazzita. Ha governato vent’anni nell’ultimo quarto di secolo e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: ha ucciso la scuola repubblicana e ha prodotto delle persone che della République e i suoi valori se ne fregano bellamente».