Quindi è Brexit. E adesso? Quanti paesi proveranno a seguire l’esempio del Regno Unito? Repubblica propone oggi un articolo – scritto evidentemente mentre le urne britanniche erano chiuse e tuttavia, visti i risultati, tutt’altro che superato – dal titolo eloquente: “L’Ue teme l’effetto domino”.
EFFETTO DOMINO. Adesso «la priorità delle priorità per i leader europei», scrive il giornalista Andrea Bonanni, è «riuscire a scongiurare il catastrofico effetto domino di una corsa generalizzata ai referendum, pro o contro la Ue, pro o contro questa o quella politica comunitaria, che paralizzerebbe del tutto l’Europa». Ma la missione non sembra avere un esito così scontato. Non solo per il risultato inaspettato della consultazione nel Regno Unito, ma anche perché «lo European Council on Foreign Relations, uno dei think-tank bruxellesi, è arrivato a contare fino a 32 possibili referendum che potrebbero essere richiesti o convocati da non meno di 45 partiti o movimenti sparsi in tutta Europa».
GIÀ IN AGITAZIONE. Fra queste decine di richieste ovviamente ci sono anche quelle in fondo trascurabili «di piccoli gruppi». Ma è facile immaginare che «dopo l’esempio britannico, dire di no a una richiesta di democrazia diretta che tocca le scelte europee è diventato più difficile e più scomodo». L’elenco dei potenziali referendum stilato da Repubblica è lungo: «In altri Paesi, dall’Olanda alla Svezia e alla Danimarca, i movimenti populisti hanno già cominciato ad agitarsi per chiedere a loro volta la convocazione di consultazioni popolari. In Grecia e in Portogallo c’è chi vorrebbe un referendum contro l’austerity di bilancio. In Estonia e Finlandia, sul fronte opposto, si chiede una consultazione per escludere dall’euro gli indisciplinati governi del Sud».
PERFINO LA TURCHIA. Poi ci sono le formazioni che «vorrebbero un referendum per bloccare gli accordi commerciali in discussione con gli Stati Uniti o, come è già successo in Olanda, per rigettare gli accordi di associazione tra la Ue e l’Ucraina». Senza contare che perfino «il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non ha aspettato neppure che si chiudessero le votazioni a Londra per minacciare di indire un referendum in Turchia chiamando il popolo a decidere se continuare o meno i negoziati di adesione alla Ue». Ma il leader europei vedono anche un altro «pericolo», aggiunge Bonanni: «che polacchi o ungheresi, che hanno aperto con Bruxelles contenziosi di principio sulla legittimità democratica delle riforme che vogliono imporre nei rispettivi Paesi, comincino a battere i pugni sul tavolo come ha fatto Cameron chiedendo di non essere vincolati a questo o quel principio della Carta europea dei valori. Dopo le concessioni fatte a Londra, sarà più difficile dire loro di no».
IL TRAMONTO DI CAMERON. In effetti, il premier britannico è sembrato un vero asso (almeno fino a stanotte) nello sfruttare le pressioni verso la Brexit «per ottenere magari il riconoscimento di uno “status” particolare» da parte di Bruxelles, come ricorda Bonanni. Non solo. Cameron l’anno scorso era stato rieletto a sorpresa proprio grazie alla promessa di un referendum sull’ipotesi Brexit. Adesso però il suo capolavoro politico si è ritorto contro di lui. Durante la campagna referendaria infatti il premier si è speso parecchio, impegnando anche molti ministri del suo governo, a favore del “Remain”. Ma è stato tutto vano. Ha vinto il “Leave” e Cameron ne ha preso atto rassegnando le dimissioni.
SCOZIA E IRLANDA IN FUGA. Inoltre a quanto pare Irlanda e Scozia, i cui elettori si sono espressi in forte maggioranza a favore della permanenza in Europa, adesso minacciano già di uscire dal Regno Unito. Un commento scritto a questo proposito da James Kirkup per il Telegraph riassume efficacemente l’«ironica» parabola di Cameron. Il leader dei Tories, ricorda Kirkup, era diventato capo del suo partito proprio incitando i compagni a smettere di prendersela sempre con l’Europa come se fosse la causa di tutti i mali. Per anni ha tenuto buoni i suoi promettendo azioni drastiche contro Bruxelles, «ma sempre domani, non oggi». Questa strategia, per forza di cose, «è finita l’anno scorso quando Cameron ha sorpreso perfino se stesso ottenendo la maggioranza assoluta in Parlamento». Quella vittoria secondo il Telegraph ha tolto al premier tutte le scuse residue «per non indire quel referendum sull’Europa che lui ha sempre saputo che poteva distruggerlo».
IL REGNO DIVISO. «Prima di questo referendum – continua Kirkup – la conquista di cui Cameron andava più fiero era probabilmente l’essere riuscito a salvare il Regno Unito vincendo il referendum sull’indipendenza della Scozia nel 2014». Il voto sulla Brexit però ha dimostrato chiaramente che se da una parte il premier può ancora contare su Scozia e Irlanda, oltre che su Londra, dall’altra «ha perso l’Inghilterra», il cui elettorato ha fatto pendere nettamente la bilancia del Regno verso il “Leave”. Ormai «questo è il Regno Unito di Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord e Londra», osserva il Telegraph, e domanda: «Per quanto tempo ancora questa unione può resistere nella sua forma attuale?».
UN POSTO NELLA STORIA. È vero, scrive ancora Kirkup, «la Scozia sarà anche d’accordo con Cameron sull’Unione Europea, ma andando contro il verdetto del Regno Unito sulla Brexit, gli scozzesi hanno dato allo Scottish National Party lo spunto perfetto per chiedere un altro voto sull’indipendenza». Eccola qua, la grande ironia della vicenda politica di Cameron. Il premier si prepara a occupare «un posto nella storia definito dalla sua sconfitta sull’Europa, il tema che lui non voleva che definisse la sua leadership». E «la sentenza di posteri» può essere perfino peggiore di così: «La storia potrebbe ricordarlo come l’uomo il cui fallimento europeo ha provocato la divisione della Gran Bretagna».
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