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«La pace in Terra Santa è prima di tutto un’opera culturale»

Yousef Zaknoun, docente all’Università di Betlemme e direttore dell’Associazione Al-liqà: «A noi cristiani il compito di pregare ed educare i giovani perché desiderino e si impegnino nella promozione del dialogo»

Alberto Perrucchini
02/03/2023 - 10:30
Esteri
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Yousef Zaknoun
Yousef Zaknoun durante la conferenza su “Il metodo cooperativo nello sviluppo internazionale” organizzata a Betlemme dalla Federazione Lombarda delle Banche di Credito Cooperativo

Yousef Zaknoun vive a Gerusalemme. Ogni giorno, da più di vent’anni, attraversa il check point per raggiungere l’Università di Betlemme dove insegna Filosofia. Incontriamo il professore presso il Convention Palace di Betlemme dove è appena intervenuto in occasione della Conferenza organizzata dalla Federazione Lombarda delle Banche di Credito Cooperativo, la realtà guidata da Alessandro Azzi che rappresenta a livello regionale le Bcc, dal titolo “Il metodo cooperativo nello sviluppo internazionale. Dalla Rerum Novarum al magistero di Papa Francesco: il valore dell’esperienza cooperativa di fronte alle sfide odierne”.

Durante l’evento, costruito con lo scopo di confrontare il modello cooperativo italiano con quello locale e riflettere insieme riguardo le origini cristiane di tale sistema collaborativo, Zaknoun ripete instancabilmente che in Terra Santa occorre intervenire quanto prima sul piano formativo; tutto il resto viene dopo. Da qui nasce l’impegno dell’Associazione Al-liqà e del Centro Carlo Maria Martini, due realtà – entrambe dirette dallo stesso Zaknoun – volte a promuovere la collaborazione e l’inclusione in Terra Santa. Per la stessa ragione, il professore ha maturato il desiderio di collaborare col Credito cooperativo.

Professore, da dove comincia la sua storia?

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Ricordo il momento in cui il villaggio dove sono nato in Galilea venne preso dall’esercito israeliano. Era il 1948. La mia famiglia viveva in quel luogo da sempre e, da un giorno all’altro, siamo stati costretti ad andarcene. Non provo rancore per quanto accaduto; la mia storia, dopotutto, è come quella di tanti altri cristiani che hanno dovuto abbandonare la propria casa. Da lì mi sono trasferito ad Haifa: una città portuale ai piedi del Monte Carmelo. Qui si respirava un clima “europeo”: non c’erano donne col velo, si viveva in un ambiente pacifico. Una città dove ho vissuto fino a quando ho deciso di recarmi a Gerusalemme per intraprendere la carriera accademica presso l’Università di Betlemme; da allora ogni giorno transito da una città all’altra. All’inizio non c’erano né muri né check point e in meno di mezz’ora potevo raggiungere il luogo dove lavoravo.

Poi cos’è successo?

Tutto è cambiato nel 1987, anno della Prima Intifada: davanti al protrarsi delle provocazioni da parte degli israeliani iniziarono le proteste. Ogni giorno si registravano attacchi da parte di entrambe le forze in campo; ricordo che, per alcuni anni, non ho mai potuto fare lezione regolarmente a causa dei continui disordini. Solamente nel 1993 il presidente Rabin e Yasser Arafat firmarono gli Accordi di Oslo: la stretta di mano tra questi due uomini inaugurò una nuova fase dove le bandiere palestinesi poterono iniziare a sventolare fuori dalle abitazioni, in cui era lecito cantare il nostro inno nazionale senza paura di ripercussioni da parte dell’autorità israeliana. La prospettiva di una pacificazione fu tradita nel 1995 con l’uccisione di Rabin. Iniziò una nuova ondata di scontri che culminò nel 2000 con la Seconda Intifada, quella dei kamikaze; lo stesso anno in cui Giovanni Paolo II si recò in Terra Santa. Tuttavia, neppure due settimane dopo l’arrivo del Pontefice ripresero le violenze.

Oggi qual è la situazione?

Dopo settant’anni si è nuovamente allo stesso punto: una guerra tra estremismi che non porterà mai alla pace. Nel tempo si è radicata nella società una spaccatura profondissima: oggi la prima cosa che si chiede a chi si incontra in Terra Santa è a quale religione appartiene.

Un settarismo dal quale non sembra esserci via d’uscita…

Tante persone confidano nel fatto che tutto si possa risolvere coi finanziamenti, tramite aiuti esterni che possano sostenere e tutelare il benessere di chi vive in questa regione. Non è così: ritenere che siano sufficienti riforme in questo ambito rischia, invece, di nascondere ed esacerbare i veri problemi della Terra Santa. Il livello su cui occorre, innanzitutto, intervenire è quello culturale. Da qui nasce il mio lavoro quotidiano e la collaborazione con le banche di credito cooperativo italiane e l’Associazione Palisco: una realtà – che vede impegnate Federcasse (la federazione nazionale delle Bcc), la Federazione delle Casse Raiffeisen dell’Alto Adige, la Cassa Raiffeisen di Brunico e la Bcc di Caravaggio e Cremasco – nata nel 2012 con lo scopo di promuovere in Terra Santa lo sviluppo della cooperazione di credito.

In che modo porta avanti il suo lavoro?

Al-liqà è una realtà nata attorno all’Università di Betlemme con lo scopo di supportare, soprattutto, le donne in una società come quella palestinese, ancora lontana dall’uguaglianza di genere. Neppure le nuove generazioni qui sono sostenute: come può un giovane imparare il valore del dialogo e della collaborazione se lui per primo viene emarginato? Il Centro Cardinal Martini è stata una prima esperienza volta ad aiutare chi si approcciava al mondo del lavoro e promuoveva la conoscenza reciproca tra giovani appartenenti a culture e religioni diverse. Occorre ora proseguire su questa linea: sono le nuove generazioni a dover maturare per prime un senso critico e a sostenere un cambiamento culturale della società. Per questo, insieme al Credito Cooperativo, stiamo lavorando a un progetto con l’obiettivo di formare giovani cooperatori che possano operare in Terra Santa; un impegno necessario affinché in questa regione maturi una cultura collaborativa e sostenibile, unica strada per non dover costantemente dipendere da aiuti esterni.

L’associazione Al-liqà si presenta, innanzitutto, come un luogo dove le donne possono incontrarsi e confrontarsi. Che significato ha una realtà di questo tipo in una società come quella palestinese?

Le donne in Terra Santa sono spesso arrendevoli: sono loro le prime ad accettare di essere subordinate ai propri mariti. Occorre, dunque, un significativo salto culturale per scardinare un tale status quo: ad Al-liqà si promuove lo sviluppo della leadership femminile, un tema che non solo va a modificare i rapporti in casa coi mariti e i figli, ma, innanzitutto, porta una donna ad una nuova consapevolezza di sé. Frequentano Al-liqà, per esempio, ragazze che si sono sposate a sedici anni, le quali, sostenute sui diversi fronti dall’Associazione, riescono a laurearsi e a lavorare, raggiungendo così l’autonomia.

La sua università e le esperienze in cui è impegnato si fondano sui valori cristiani; quegli stessi princìpi che da sempre guidano le Bcc. Quale ruolo giocano oggi i cristiani in Terra Santa?

In questa regione la Chiesa non ha più alcun peso a livello politico; tuttavia, continua a mantenerlo sul piano culturale: basti pensare che tra Israele e Palestina si contano più di 50 scuole gestite da ecclesiastici e l’Università di Betlemme, la cui fondazione fu sostenuta dallo stesso Paolo VI a seguito del suo viaggio in Terra Santa, risulta oggi uno degli atenei più importanti della regione. Uno scenario che ben sintetizza la responsabilità che i cristiani hanno nei confronti delle nuove generazioni: noi per primi dobbiamo pregare ed educare i giovani perché desiderino e si impegnino nella promozione del dialogo. Dobbiamo continuare a lavorare anche se non vediamo subito risultati concreti; la nostra fede può essere la chiave per diffondere nella società una cultura cooperativa e aprire la strada verso la vera pace.

Tags: cristianesimogerusalemmeisraele palestinaterra santa
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