“Wrecking Ball”, il ritorno di Bruce Springsteen tra crisi e Apocalisse

Di Carlo Candiani
07 Marzo 2012
Il nuovo lavoro del Boss è un disco energico e denso. Il grande rocker racconta l'America dei disoccupati e dei reietti della società convinto che alla fine "la grande luce del mattino si fa strada tra l’oscurità".

Anticipato da dispacci stampa, anteprime video musicali e da una esauriente conferenza stampa parigina di presentazione nella quale ha sciorinato tutta la sua filosofia di vita, ecco arrivare nei negozi l’ultima fatica discografica di Bruce Springsteen: Wrecking Ball. È l’album della disillusione nei confronti della politica di Obama, nella quale il Boss aveva fortemente creduto e che ora appoggerà un po’ in disparte, osservandola seduto su una panchina ai bordi del campo. Una disillusione che non porta a un’apatia, a uno sterile nichilismo, ma che vuol testimoniare una reazione nel segno del cuore ferito dalla crisi, della rabbia degli emarginati vecchi e nuovi, dei truffati dalla finanza demolitrice dei valori solidali, i valori che hanno costruito la grande nazione americana. Con The Rising Springsteen fu il cantore della risurrezione dopo l’attentato alle Torri Gemelle, oggi il rocker si prende sulle spalle l’ultima grande crisi economica e la racconta con foga e passione. È uno scenario quasi biblico, apocalittico, quello che si apre ascoltando questi nuovi brani, pieni di parole, che raccontano la disoccupazione, il duro lavoro quotidiano, bandiera di una dignità persa con il posto in fabbrica e negli uffici. L’importanza dell’amore “definitivo” tra uomo e donna, quello che cambia la vita, che ti commuove, che vivi con com-passione nell’affrontare la tragedia umana.

Prendiamoci a cuore è l’appello iniziale di Springsteen, accompagnato dal suo rock più riconoscibile, un episodio musicale all’interno della tradizione più classica del suo catalogo. Tutto l’album si snoda attingendo alle radici dell’epica americana: dalle gighe irlandesi dei primi migranti europei che sbarcarono sulla rive di Boston, passando per il gospel bianco, gli anni 50, fino a echi di hip hop, inediti nella sua storia musicale. Una voglia di orchestra, con i fiati che si rincorrono, il violino omnipresente di Suzy Tirrel e una batteria che picchia sempre in primo piano, quasi fastidiosa, come un martello che pianta i chiodi nei crocefissi dei reietti nella città opulenta (“il banchiere ingrassa, i lavoratori dimagriscono”).

È la generazione che corre, ama, piange, lavora, spera, prega, dubita, si aggrappa alla fede, per non essere inghiottita, dopo per essersi affidata solo alle proprie capacità. In tutta la prima parte del disco è la notte che si impone,“arranco nel buio in un mondo che va male”, ma la speranza di un mattino che sorge, di un sole che illumini la vita, “la grande luce del mattino si fa strada tra l’oscurità” è li presente, è la realtà: “in questa depressione ho bisogno del tuo cuore, ho la fede sconvolta, ma non ho perso la speranza, il sole del mattino sta sorgendo”. La realtà della “libertà (che è) una camicia sporca” del lavoro quotidiano, distrutto da una finanza senza scrupoli, che ruba la dignità a un uomo, “un tuttofare, prenderò il lavoro che Dio mi dà: tagliare il prato, aggiustare macchine, per poi, prenderci cura l’uno dell’altro, come Gesù ci disse di fare”. Ecco: “hanno portato la morte nella mia città, senza bombe, né fucili, senza tuono di morte né dittatori: i capitalisti senza scrupoli hanno distrutto gli stabilimenti delle nostre famiglie”. Ma la speranza non muore: “Abbiamo viaggiato su un terreno roccioso, gli angeli cantano Gloria Alleluya. Gesù ha detto che i mercanti non resteranno nel tempio”.

Il Boss canta la crisi ma non si rassegna e grida: “Pastore alzati, porta il tuo gregge al sicuro, in attesa che passi la notte e sorga il giorno del Giudizio”. Nell’attesa vivi con la tua donna, chiedi l’amore “che non si insegna a scuola, che nessuno ha mai trovato, né comprato, né rubato” e con i tuoi figli “crescili e insegnali a camminare dritti e sicuri. Prega che i tempi duri non ritornino”. Forse sarà una wrecking ball, un palla demolitrice di case vecchie, che sconfiggerà le ingiustizie, non senza vittime innocenti,  “I tempi duri arrivano, i tempi duri se ne andranno, sappiamo che domani arriverà e nulla resisterà, la nostra giovinezza sarà ridotta in polvere”. “C’è una croce laggiù, sulla collina del Calvario, la terra si è alzata sopra di me e i miei occhi si sono riempiti di cielo, siamo vivi, per lottare spalla a spalla, cuore a cuore”.

La parte finale del disco è dedicata alla sua terra, alla nazione “terra di speranza e sogno” percorsa da un immaginario treno su cui viaggiano “fede, cuori, anime perse, speranza; tra santi, peccatori, prostitute e giocatori d’azzardo, re spodestati e buffoni di corte”. E allora “Sali a bordo di questo treno, ringrazia il Signore e lascia ogni dolore”. Questo nuovo di Springsteen è un lavoro denso di tensione civile, ci troviamo il Dylan della visionarietà biblica e la conferma che il tributo alla “protest song” di Pete Seeger non è stato solo un episodio, un’infatuazione di una stagione musicale, ma la stella polare della maturità artistica del Boss. Che in questi anni ha dovuto affrontare i lutti per la perdita di amici fraterni: Danny Federici, il tastierista della E-Street Band e soprattutto Clarence Clemons, il cui suono del sax riecheggia ancora in un paio di brani, quasi che il Boss non si rassegni a non averlo più vicino. “Wrecking Ball” è un bel disco, musicalmente energico e muscoloso, che rompe lo schema rock, per approdare a un “folk’n’roll” che recupera i cori reiterati del gospel, il ritmo western, il “mainstream radiofonico”, un groviglio di voci e suoni per raccontare l’America di oggi, sempre più legata ai destini di tutto mondo.

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4 commenti

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