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Home Esteri

Vivere (e lavorare) in schiavitù a Dubai. Storia di Harriet

Ecco cosa devono subire i milioni di immigrati che lavorano in Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. «Nel mio giorno libero piangevo, ero felice di avere quella possibilità»

Leone Grotti
24/04/2016 - 2:00
Esteri
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arabia-saudita-lavoro-migranti-ansa

Harriet è nata in Uganda, ha 25 anni e un buon curriculum. Ma poiché a Kampala non è riuscita a trovare lavoro per un anno, ha deciso di tentare la fortuna a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dove 7,8 milioni di persone su 9,2 sono lavoratori stranieri. Una compagnia di assunzioni l’ha contattata per pulire gli aerei all’aeroporto internazionale di Dubai e lei ha accettato. Così è cominciato il suo incubo.

STATI SCHIAVISTI. La sua storia, insieme a quella di tante altre persone come lei ridotte a schiave nei paesi arabi, è raccontata nel libro di prossima uscita: Slave States. The practice of Kafala in the Gulf Arab Region (Stati schiavisti. La pratica della kafala nel Golfo arabo). Le storie sono state raccolte dal giornalista ugandese Yasin Kakande, che ha scritto per oltre dieci anni dal Medio Oriente.

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PAGARE PER LAVORARE. Harriet ha firmato un contratto per due anni, a 800 dirham (192 euro) al mese, ma le prospettive di guadagno fin da subito si sono mostrate in salita. Infatti, in cambio del privilegio del lavoro, ha dovuto pagare un pizzo di 2.400 dirham, pari a tre mesi di salario. Dopo sei mesi, le braccia e il volto le si sono ricoperti di sfoghi e irritazioni a causa di un detergente, il Bacoban, dannoso per la pelle. Dopo essersi lamentata con i suoi superiori, è stata subito portata in ospedale e curata.

CURE A PAGAMENTO. Solo a fine mese ha scoperto che le cure erano a suo carico e così, su 800 dirham pattuiti, ne ha ricevuti solo 200. Harriet avrebbe voluto tornare all’ospedale nei mesi successivi, dal momento che le irritazioni peggioravano, ma il suo datore di lavoro l’ha avvisata che se avesse lavorato meno delle ore pattuite, sarebbero scattate delle penalità. Non poteva permetterselo.

VIETATO BERE. In generale, interrompere il lavoro era proibito: non ci si poteva fermare né per mangiare, né per bere un bicchiere d’acqua. Un collega della ragazza, proveniente dal Kenya, un giorno è svenuto al pomeriggio per il caldo dentro l’aeroplano: l’aria condizionata non funzionava e lui non aveva mai potuto fermarsi per bere dal mattino. Molti rubavano delle bottigliette d’acqua all’interno degli aeroplani, con il terrore di essere scoperti.

ABUSI SESSUALI. Ogni volta che si chinava a terra, uno dei superiori di Harriet si allungava su di lei toccandole il fondoschiena con le natiche o con le parti basse. Se si lamentava per quel trattamento, quelli rispondevano: «Scusami, è la posizione della banana». Tutte le sue colleghe venivano trattate allo stesso modo e chi denunciava ufficialmente un caso veniva «accusata di essere una prostituta».

COSTRETTE A PROSTITUIRSI. In effetti, molte sue colleghe finivano per prostituirsi perché non avevano altra scelta. Lo stipendio, già di per sé misero, a volte non bastava neanche per mangiare. Nei miserabili container o logori appartamenti in cui venivano alloggiate le lavoratrici era vietato cucinare. Così si era costretti a comprare il cibo fuori. La stessa cosa valeva per i vestiti: bisognava per forza recarsi alle lavatrici automatiche. Solo per pulire l’uniforme (ed era obbligatorio), bisognava pagare quattro dirham.

CUCINARE DI NASCOSTO. Per sopravvivere, era indispensabile violare le regole, facendosi da mangiare all’aperto. Ma di nascosto e a notte fonda, per timore di essere scoperti. Al di fuori del suo complesso, costruito per sole donne, era in realtà pieno di uomini che gridavano perché uscissero in strada. Molte donne lo facevano, non per fare conoscenza, ma per prostituirsi e raggranellare qualche soldo in più. Molte si rifiutavano e finivano per essere stuprate anche solo nel breve tragitto dagli appartamenti al ristorante.

KAFALA. Dopo neanche un anno, Harriet ha deciso di cambiare lavoro, inviando a diverse aziende il suo curriculum. Tutte le risposte dicevano la stessa cosa: abbiamo bisogno che il tuo datore di lavoro dia il consenso. Stupita, chiese all’ufficio risorse umane della sua impresa di che cosa si trattava. E quelli le risposero che non poteva cambiare lavoro fino alla scadenza del contratto e che se l’avesse fatto, sarebbe stata cacciata dal paese. Il sistema chiamato kafala prevede appunto che il datore di lavoro possa disporre a piacimento del dipendente.

«FELICE DI PIANGERE». Fortunatamente, Harriet è riuscita a convincerlo e ora è impiegata in un negozio di cosmetici di Dubai. Anche qui deve affrontare molte difficoltà, ma è nulla rispetto a prima. Parlando con l’autore del libro, ricorda il suo primo lavoro: «Considero ancora quei due anni passati a pulire gli aerei come la peggiore esperienza della mia vita». In realtà, c’era una sola cosa che le dava sollievo. Il giorno libero: era una dei pochi lavoratori ad averlo. «Passavo tutto quel giorno a letto a piangere. Ero davvero felice di avere la possibilità di piangere in privato. Solo questo mi impediva di crollare in pubblico».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: arabia sauditadubaiemirati arabi unitikafalaqataruganda
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