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Vendo figlio chiavi in mano. Quanto costa comprarsi un bebè

In India bastano poche migliaia di dollari per un pupo fatto e finito. In California costa di più, ma i cinesi pagano qualsiasi cifra per un’“incubatrice” come si deve. In fondo è il mercato che fa i prezzi. Anche al gran bazar internazionale dei bambini.

Valentina Fizzotti
14/03/2012 - 0:47
Società
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Funziona più o meno come per le case vacanza o le automobili a chilometri zero: sapendo dove andare, a Mumbai per comprarsi un bambino basta una settimana. Con in tasca un documento d’identità e poco più di 4 mila euro, in sette giorni si torna a casa con un figlio che ha il nostro nome sul certificato di nascita. In caso di fretta, la nostra meta è un orfanotrofio, attraverso il quale i genitori più poveri si vendono la progenie. Ma se abbiamo un po’ di pazienza e qualche soldo in più da spendere, e soprattutto se sentiamo forte il richiamo del Dna, ci potrebbero offrire anche la pancia di una donna in cui fare crescere un bambino che ha i nostri geni: in questo caso ce la caveremo con 15 mila euro e magari vitto e alloggio per la signora. Lo hanno documentato due reporter del tabloid indiano MiD Day, che dopo una settimana di trattative, un discreto pragmatismo e un cospicuo acconto sono riusciti a comprarsi un bel neonato.
La figura centrale è una Celestina in chiave riproduttiva, colei che tratta con i clienti e diffonde fra le giovani (e povere) spose la sua personale teoria antiabortista: non interrompere la gravidanza, vendimi il bambino e ci guadagnerai pure. I singoli passaggi, scartoffie comprese, sono organizzati con cura e potrebbero essere ulteriormente velocizzati: l’affare si è concluso in una settimana soltanto perché un giorno l’anagrafe era chiusa e il sabato tradizionalmente non è un giorno di buon auspicio per portarsi a casa un figlio. Nel medesimo villaggio, a 60 chilometri da Mumbai, la stessa mezzana poteva risolvere anche il problema delle coppie infertili o desiderose di un figlio maschio che si fa attendere: al marito, se danaroso, viene offerta una ragazza del luogo, non necessariamente per fecondazione in provetta. Appurati salute e sesso del feto la ragazza porta in pancia il figlio dell’uomo ricco e al termine lo consegna alla sua famiglia. Anche ai due reporter l’intermediaria ha proposto la maternità surrogata a 15 mila euro, di cui a lei sarebbe spettata una percentuale per il disturbo.

Il reportage di MiD Day racconta solo la versione artigianale di un business consolidato che vale quasi due miliardi di euro. I primi in India ad affittarsi pance altrui sono gli straricchi locali, i vip e gli attori di Bollywood che sorridono sulle copertine con le nuove creature («Siamo colpiti dalla grandezza di Dio e dal miracolo della scienza», hanno commentato due star del cinema indiano, Aamir Khan e Kiran Rao, ringraziando per «il dono di un maschio» attraverso un utero in affitto). Poi arrivano gli stranieri, coppie etero o gay che optano per incubatrici umane a basso costo appoggiandosi ad agenzie che si occupano esclusivamente di questo. L’importante, anche qui, è la destinazione: bisogna dirigersi nelle zone più povere, quelle dove le donne accettano di trasformarsi in galline da batteria per poter sfamare i figli che hanno già.

Per esempio a Guntur, nell’Andhra Pradesh, sulla costa orientale, dove in media, secondo i calcoli del quotidiano indiano Mail Today, un bambino costa 6 mila euro: 2.500 vanno alla madre, 3 mila all’ospedale e il resto all’intermediario. Quello dell’intermediario è un lavoro redditizio (e abbastanza semplice, pare: 2.500 euro sono un sacco di soldi da quelle parti, in cambio dell’inconveniente di portarsi un figlio altrui in pancia per nove mesi) e i migliori sono i medici. Le candidate ideali per un posto da surrogate hanno invece meno di trent’anni, sono sane e hanno già figli. E devono avere un po’ di spirito d’adattamento: a Prabhadevi, quartiere superborghese di Mumbai, la “prima clinica gay, lesbian, bisexual e transgender friendly d’India”, Rotunda Clinic, ospita le sue madri surrogate in bilocali. Quindici alla volta. In questi appartamenti le donne, stoccate sui materassi appoggiati al pavimento, crescono i loro pancioni e litigano un po’ (è tutta colpa degli ormoni, non del fatto che vivano in un allevamento intensivo), ma hanno una domestica che pulisce e dà loro da mangiare.

Grazie a leggi fra le più permissive del pianeta, l’India si è trasformata in un supermarket di uteri e bambini, offerte comprese. Il pacchetto può includere una donatrice di ovuli con gli occhi chiari (merce da prelevare in Russia o in Inghilterra), oppure una seconda pancia in affitto (per aumentare le probabilità) a metà prezzo. La tariffa varia anche per le caratteristiche richieste: non fumatrice, timorata di Dio, non musulmana (opzione richiesta delle coppie di fede ebraica).

Solo che in tutto questo tramestare fra pance e provette, spiegano i sociologi locali, in India non c’è più la maternità surrogata di una volta: fino a vent’anni fa due coniugi senza figli chiedevano a una donna della famiglia di farne uno per loro (e poi si capisce perché nei romanzi di Chitra Divakaruni le ragazze indiane in America si innamorano dei mariti delle cugine). Poi sono arrivati gli stranieri e adesso il 90 per cento delle donne lo fa per soldi e quasi la metà delle coppie che cercano madri surrogate abitano nelle grandi città indiane. Alle volte si portano a casa la ragazza incinta del loro bambino e la accudiscono fino al parto.

Anche negli Stati Uniti la maternità surrogata si porta molto, solo costa un bel po’ di più. Per un pacchetto completo, ovociti compresi, si arriva a spendere circa 150 mila dollari. Per questa cifra (nemmeno l’equivalente di un monolocale in periferia) fino alla settimana scorsa uno degli avvocati californiani più famosi in materia di adozioni ti vendeva un bambino perfetto. Theresa Erickson faceva fabbricare gli embrioni in Ucraina (per garantire gambe lunghe e capelli chiari) e lì volavano le ragazze americane pronte a fare da surrogate. A gravidanze avviate, l’avvocato raccontava ai suoi clienti di avere casualmente un bambino in dirittura d’arrivo che i genitori richiedenti non volevano più. È stata arrestata a San Diego con l’accusa di traffico di esseri umani soltanto perché la sua catena di montaggio non rispettava i tempi richiesti dalle leggi della California: gli embrioni devono essere impiantati a contratto stipulato con la coppia che li adotterà, e non prima. Nessuno era stupito della parcella: negli anni le donne americane sono diventate incubatrici costose ma richiestissime, adesso anche dai nouveaux riches dell’economia globale, i cinesi. Nel loro paese la maternità surrogata è proibita e più difficile da nascondere, mentre in California, dove la comunità sino-americana è in crescita, sembra tutto molto più facile.

Lo scorso anno metà degli introiti dell’Egg Donor & Surrogacy Institute a Los Angeles proveniva da coppie cinesi. La Surrogate Alternatives Inc. of San Diego, che lo scorso anno ha lavorato con 140 coppie cinesi, ha tre agenti in Cina che si occupano di reclutare potenziali genitori. Il nuovo trend influenza anche le tariffe: se una donna occidentale riceve fino a 8 mila dollari per i suoi ovuli, una donna cinese ne chiede dai 15 mila in su, perché il suo è un prodotto sempre più richiesto. Per i cinesi l’alternativa indiana low cost è poco appetibile: un figlio con cittadinanza americana è impagabile. Alcuni hanno dovuto rispettare la politica del figlio unico per tutta la vita, e ora che possono permettersi di pagare le multe destinate a chi la infrange sono troppo vecchi per concepire un bambino in maniera naturale, e allora volano in California per allargare la famiglia. Altri ancora scelgono gli Stati Uniti perché lì la scienza è all’avanguardia e talvolta si può perfino scegliere di farsi partorire un unico figlio maschio.

Per i cinesi che restano in patria c’è il mercato nero di pance e bambini, una rete di oltre 500 agenzie dedicate alle maternità surrogate che trovano potenziali clienti online (questo è l’anno lunare del Dragone, di buon auspicio per le nascite, e hanno un gran daffare). Gli stessi futuri genitori vanno a caccia di possibili surrogate sul web. Su QQ, il network più usato in Cina, ci sono oltre 180 gruppi dedicati agli uteri in affitto, con un totale di 30 mila membri. Una gravidanza surrogata, a seconda delle agenzie, costa fra 90 mila e 150 mila dollari. Il preventivo di un’agenzia tipo prevede 2 mila dollari per trovare una madre surrogata, più di 5 mila per trovare i dottori, fra 7 mila e 11 mila per i costi medici, 30 mila circa per il compenso e il rimborso spese della donna (che però ne riceve fra i 12 e i 15 mila). La multa per chi viola le leggi in materia di fecondazione assistita (meno di 5 mila euro) non scoraggia né gli ospedali né i medici, che guadagnano 20 mila dollari a bambino.

Per gli europei, invece, il vero problema è portarseli a casa, i bambini. La maternità surrogata è bandita nella maggior parte degli stati europei (anche se non con legge comunitaria) ma ammessa con precise condizioni in Gran Bretagna e Grecia. Se non ci si può permettere le alternative americane e indiane, restano i paesi dell’Est, prima l’Ucraina. Ma spesso i bambini nati all’estero restano in un limbo legale senza documenti nel posto in cui sono venuti al mondo, non riconosciuti dalla donna che li ha portati in grembo e impossibilitati a essere adottati da chi ha pagato per averli. In Germania si dibatte da anni sulla famiglia Pankert: per l’India i loro figli sono tedeschi, per la Germania sono indiani, e nessuno dei due governi intende rilasciare loro un passaporto. A metà febbraio il viceministro alla Giustizia dei Paesi Bassi, Fred Teeven, ha proposto che i bambini nati all’estero da uteri in affitto siano riconosciuti come olandesi se la madre è nota e almeno ovuli o seme siano di nazionalità olandese. Gli irlandesi hanno questo problema dal 2005: fino ad allora potevano farsi partorire un figlio nella vicina e liberale Gran Bretagna (dove vanno anche per abortire) e adottarlo al rientro. Per risolvere la questione, dalla scorsa settimana la cattolica Irlanda si è dotata di regole che permettono ai suoi cittadini di andare lontano e portarsi a casa un bambino con tutti gli incartamenti. Nelle linee guida appena firmate dal ministro della Giustizia di Dublino, Alan Shatter, si concedono documenti e cittadinanza ai bambini nati da padre biologico irlandese. L’importante, si spiega, è che la madre surrogata dia il suo «pieno, libero e informato consenso». Con l’aiuto di un interprete, di un legale e di una mezzana.

Tags: bambinibebèindiaterzo mondo
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